Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

lundi, 10 janvier 2011

Drieu la Rochelle, poeta della decadenza

Drieu La Rochelle, poeta della decadenza

Pierre Drieu La RochelleVi sono scrittori che impersonano nella loro esistenza e nelle opere un’epoca intera con tutte le sue contraddizioni. Pierre Drieu La Rochelle è stato uno di questi enfants du siècle. E il fascino dei suoi romanzi è legato non solo alla loro efficacia letteraria, ma anche al fatto che lo scrittore francese è diventato il simbolo di una generazione, quella degli “anni ruggenti”, divisa fra una vita disordinata e la ricerca di un ordine personale e sociale. Personaggi e romanziere si sono identificati agli occhi dei lettori sino a perdere ogni distinzione. E così doveva avvenire perché tutta la sua narrativa è un lungo monologo autobiografico in cui fantasia e confessione si intrecciano inestricabilmente.

 Qualcuno lo ha definito il fratello di F.S. Fitzgerald, il poeta della decadenza, della disintegrazione di una civiltà. E la definizione è, in parte, esatta. Drieu infatti è fra gli scrittori francesi che hanno avvertito più tragicamente e intensamente la crisi dell’uomo occidentale. “Il suo spirito era abituato – ha scritto in un romanzo – a confrontare la vecchiezza di oggi, che si dibatte con scosse secche e nervose, alla giovinezza creatrice con le sue armonie calme e piene”.

Le sue opere letterarie più significative, come Drôle de voyage, Fuoco fatuo, Rêveuse bourgeoise, Gilles, sono tutte modulate su questo tema della decadenza. I personaggi ne sono partecipi e rivelano nelle loro vicende l’incapacità di avere rapporti costanti e normali con gli altri, donne, uomini e ambienti, in un’alternanza di desideri e delusioni, di decisioni e di rinnegamenti; spinti continuamente a fuggire, a evitare ogni legame per timore di dovere “scegliere”.

Le pagine più compiute della sua narrativa, in genere scostante come scostante era lo stesso scrittore, sono appunto quelle in cui Drieu esprime questa atmosfera di crisi attraverso un ritmo linguistico che passa da un periodare secco e duro a una prosa densa e contorta. Ma parlare in Drieu di un’unità e costanza stilistica sarebbe, a parer nostro, inesatto: per lui infatti lo stile era un puro strumento che doveva adattarsi alla materia che trattava. Mentre, per fare un esemio, Fuoco fatuo e La commedia di Charleroi sono costruiti in un linguaggio scabro ed essenziale, Drôle de voyage e la prima parte di Gilles, che descrivono invece una corruzione di sentimenti e un clima di disfacimento, sono modulati su un ritmo più contorto, denso, colmo di echi e di riferimenti. Ma il caso più significativo è quello di Rêveuse bourgeoise,dove l’autore, dovendo rievocare in chiave fantastica la storia della sua famiglia e l’ambiente della media borghesia durante la belle époque, adotta consapevolmente il linguaggio del naturalista.

Pierre Drieu La RochelleLa modernità di Drieu sta, a parer nostro, nella struttura costante di tutta la sua opera che, al di là delle differenze stilistiche sottolineate, fonde nel tessuto narrativo materiali di diversa estrazione, descrizioni di vicende, meditazioni interiori, annotazioni storiche e di costume, costruendo un vero e proprio tipo di “romanzo-saggio”. Ma, a differenza di altri narratori, Drieu descrive senza definire: tutta la sua narrativa manca cioè di corposità veristica, i personaggi non hanno volto, sono centri nervosi, temperamenti – o forse anime – e i loro rapporti non sono quasi mai visti direttamente, ma attraverso lo schermo dei loro riflessi emotivi.

Faremmo però un torto al romanziere francese se lo riducessimo a un puro descrittore della decadenza. La consapevolezza della decadenza non era per lui un alibi, una giustificazione per accomodarsi nella poltrona di un nichilismo senza speranza. In lui era viva l’esigenza di una rivolta per modificare una situazione personale e sociale che giudicava negativa. L’aveva già sperimentata durante la prima guerra mondiale, che gli ispirò il suo racconto più compiuto, quella Commedia di Charleroi, in cui i temi della guerra moderna come simbolo della decadenza, il desiderio di rivolta, l’eroismo e la paura si mescolano in un impasto linguistico di derivazione surrealista, spezzato, rotto, in cui passato e presente, azione e meditazione formano vari piani narrativi intrecciati fra di loro in una struttura armonica.

Questo bisogno però di una rivolta, invece di esprimersi, come sarebbe stato proprio per uno scrittore, in una ricerca e in un approfondimento interiore, lo spinse verso l’azione pubblica, nell’evasione dell’impegno politico attivo che si concluse, come si sa, nella sua adesione al fascismo e nel tragico suicidio. Ma – ed è bene sottolinearlo per comprendere appinero la sua personalità – negli ultimi anni lo scrittore francese stava maturando una meditazione che lo allontanava sempre di più, da un punto di vista psicologico, dalla politica, dagli aspetti più contingenti della storia, e lo portava a cercare certezze non condizionate dagli avvenimenti. L’ultimo Drieu, che fra l’altro ha scritto quella stupenda confessione che è Racconto segreto, viveva ormai orientato verso una prospettiva metafisica, nella lettura di San Paolo, dei Vangeli e dei testi sacri orientali.

Pol Vandromme ci offre in questo saggio un ritratto prevalentemente psicologico di Drieu nella sua epoca, molto importante per capire i temi fondamentali delle sue opere, e nello stesso tempo sottolinea i motivi originali di questo autore che ha anticipato, pur nei limiti della sua formazione culturale, non solo una certa letteratura dell’incomunicabilità del dopoguerra, ma anche una corrente letteraria francese, quella che è passata alla storia degli anni cinquanta come la scuola degli ussari e degli enfants tristes.

Presentazione di: Pol Vandromme, Pierre Drieu La Rochelle, Borla, Torino 1965, pp. 7-10

dimanche, 09 janvier 2011

Drieu on the Failure of the Third Reich

Drieu on the Failure of the Third Reich

Michael O'MEARA

drieu.jpgThe powers threatening our people became hegemonic in May 1945, when the liberal-Communist coalition known as the “United Nations” imposed its dictatorship on defeated Germany.

This dictatorship—whose defining characteristic, East and West, is its techno-economic worship of the Jewish Moloch—was subsequently imposed on the rest of Europe and, in the form of globalization, now holds the whole world in its grip.

For white nationalists, the defeat of National Socialist Germany is both the pivotal event of the twentieth century and the origin of their own movement—to save the white race from the rising tide of color.

White nationalists resume, in effect, the struggle of the defeated Germans. But they do so not uncritically.

As an idea and a movement, National Socialism (like Fascism) was a product of the late nineteenth-century political convergence that brought together elements from the revolutionary anti-liberal wing of the labor movement and elements from the revolutionary anti-liberal wing of the nationalist right. Hitler’s NSDAP was the most imposing historical offshoot of this anti-liberal convergence, but one not always faithful to its origins—which bears on the fact that Hitler shares at least part of the responsibility for the most devastating defeat ever experienced by the white race.

It’s not enough, then, for the present generation of white nationalists to honor his heroic resistance to the anti-Aryan forces.

Of greater need, it seems to me, is to identify and come to terms with his failings, for these, more than his triumphs, now effect our survival as a people.

The following is an excerpt from a piece that Pierre Drieu La Rochelle wrote in the dark days after August 1944, after the so-called “Liberation” of Paris and before the suicide that “saved” him from De Gaulle’s hangman.

It was written in haste, on the run, and never completed, but is nevertheless an illuminating examination of Hitler’s shortcomings (even where incorrect).

The central point of Drieu’s piece (and it should be remembered that he, like many of France’s most talented thinkers and artists, collaborated with the Germans in the hope of creating a new European order) is that Germany alone was no match for the combined powers of the British Empire, the United States, and the Soviet Union.

Only a Europe recast on the basis of National Socialist principles, he believed, could triumph against this coalition and the Jews who inspired and guided it.

Hitler’s petty bourgeois nationalism, critiqued here by Drieu, prevented him from mobilizing the various national families of Europe in a common front, proving that his distillation of the anti-liberal project was inadequate to the great tasks facing the white man in this period.

* * *

From Drieu’s “Notes sur l’Allemagne”:

I was shocked by the extreme political incompetence of the Germans in 1939, 1940, and 1941, after the victories [which made them Europe’s master]. It was in this period that their political failings sealed the fate of their future military defeat.

These failings seem even greater than those committed under Napoleon [in the period 1799-1815, when the French had mastered Europe]. The Germans obviously drew none of the lessons from the Napoleonic adventure.

Was German incompetence the incompetence of fascism in general? This is the question.

The imbecilic maxim guiding Hitler was: “First, wage and win the war; then, reorganize Europe.” This maxim contradicted all the lessons of history, all the teachings of Europe’s greatest statesmen, particularly those of the Germans, like Frederick and Bismarck. It was Clausewitz who said war is only the extension of politics.

But even if one accepts Hitler’s maxim, the German dictator committed a number of military mistakes:

1. Why did he wait six months between the Polish campaign and the French campaign?

2. Why did he squander another ten months after the French campaign?

3. Why in late 1940 did he wage a futile aerial assault on England, instead of striking the British Empire at its most accessible point, Gibraltar?

After July 1940 [when no European power opposed him on the continent], he could have crossed Spain, destroyed the [English] naval base at Gibraltar, and closed off the Mediterranean.

The armistice with Pétain [which led to the establishment of the Vichy regime] was [another] German disaster. If the French had followed [Paul] Reynaud [the last Premier of the Third Republic who advocated continued resistance from France’s North African colonies], the Germans would have been forced to do what was [militarily] necessary to win the war.

For once master of Gibraltar, Hitler would have rendered [the English base at] Malta useless, avoided the Italian folly in the Balkans [which doomed Operation Barbarosa in Russia], and assured the possibility of an immediate and relatively uncostly campaign against [English occupied] Egypt. Instead of bombing London, he should, have seized Alexandria, Cairo, and Suez.

This would have settled the peace in the Balkans, avoiding the exhausting occupations of Greece and Yugoslavia, [it would have cut England off from her overseas empire, and guaranteed Europe’s Middle Eastern energy sources].

These military failings followed from Hitler’s total lack of imagination outside of Germany.

He was [essentially] a German politician; good for Germany, but only there.

Lacking political culture, education, and a larger tradition, having never traveled, being a xenophobe like many popular demagogues, he did not possess an understanding of what was necessary to make his strategy and diplomacy work outside Germany.

All his dreams, all his talents, were devoted to winning the war of 1914, as if conditions [in 1940] were still those of 1914. . . He thus underestimated Russian developments and totally ignored American power, which had already made itself felt in the Great War.

He did understand the importance of the tank and the airplane [whose military possibility came into their own after 1918], but not in relationship to the enormous industrial potential of Russia and America.

He neglected [the role of] artillery, which was a step back from 1916-1918.

He is least reproachable in his estimation of submarine warfare, whose significance was already evident in 1916. But even here, the Anglo-Saxons [i.e., the Anglo-Americans] deployed their maritime genius in a way difficult for a European continental to anticipate.

Hitler’s political errors [, however,] were far worse and more thorough-going than his military errors. He hardly comprehended the problem, seeing it in terms of 1914—in terms, that is, of diplomacy, national states, cabinet politics, and [rival] chancelleries. His understanding of Europe did not even measure up to that of old aristocrats like Bismarck and Wilhelm II, who never forgot the tradition of solidarity that united Europe’s dynasties, courts, and nobilities. . .

It’s curious that this man who knew how to inspire the masses in his own country, who always maintained the closest contact with his people, never, not for a second, thought of extending his [successful] German policies to the rest of Europe. He [simply] did not understand the necessity of forging a policy to address Europe domestically and not just internationally.

Diplomats and ambassadors had lost command of the stage after 1940—it was now in the hands of political leaders capable of winning the masses with the kind of social policies that had succeeded in Germany and could succeed elsewhere.

Hitler didn’t understand this. After his armies invaded Poland, France, and elsewhere, he never thought of implementing the social and political practices that had worked in Germany . . . He never thought of carrying out policies that would have forged bonds of solidarity between the occupied and the occupiers. . .

These failures lead me to suspect that the Germans’ political stupidity . . . owed something to fascism—that political and social system awkwardly situated between liberal democracy and Communist totalitarianism.

In the fascist system there was something of the “juste milieu” that could only lead to the miserable failure awaiting the Germans. [A French term meaning a “golden mean” or a “happy medium,” “juste milieu” is historically associated with the moderate centrist politics (or anti-politics) of bourgeois constitutionalists—first exemplified by France’s July Monarchy (1830-48) and subsequently perfected in the American party system].

The Germans have no political tradition. For centuries, most of them inhabited small principalities or cities where larger political forces had no part to play.

However, there was Vienna and Berlin. In these two capitals, politics was the province of a small [aristocratic] caste. The events of 1918 [i.e., the liberal revolutions that led to the Weimar and Viennese republics] abruptly dislodged this caste, severing its ties from the new governing class.

Everything that has transpired in the last few years suggests that Germany remains what it was in the eighteenth century . . . a land unable to anchor its warrior virtues in politically sound principles . . .

[Part of this seems due to the fact that] the German is no psychologist. He is too much a theoretician, too intellectually speculative, for that. He lacks psychology in the way a mathematician or metaphysician does. German literature is rarely psychological; it develops ideas, not characters. The sole German psychologist is Nietzsche [and] he was basically one of a kind. . . Politically, the Germans [like the French] are less subtle and plastic than the English or the Russians, who have the best psychological literature and hence the best diplomacy and politics.

Hitler’s behavior reflected the backward state of German, and beyond that, European attitudes.

This son of an Austrian custom official inherited all the prejudices of his father’s generation (as had Napoleon). And like every German nationalist of Austrian extraction, he had an unshakable respect for the German Army and the Prussian aristocracy. Despite everything that disposed him against it, he remained the loyal Reichwehr agent he was in Munich [in 1919]. . . If he subsequently became a member of a socialist party [Anton Drexler’s German Workers’ Party]—of which he promptly became the leader—it was above all because this party was a nationalist one. Nationalism was always more important to him than socialism—even if his early years should have inclined him to think otherwise . . .

Like Mussolini, Hitler had no heartfelt commitment to socialism. [Drieu refers here not to the Semitic socialism of Marx, with its materialism, collectivism, and internationalism, but rather to the older European corporate socialism, which privileges the needs of family, community, and nation over those of the economy] . . . That’s why he so readily sacrificed the [socialist] dynamism of his movement for the sake of what the Wehrmacht aristocracy and the barons of heavy industry were willing to concede. He thought these alone would suffice in furnishing him with what was needed for his war of European conquest. . .

Fascism failed to organize Europe because it was essentially a system of the “juste milieu” —a system seeking a middle way between communism and capitalism. . .

Fascism failed because it did not become explicitly socialist. The narrowness of its nationalist base prevented it from becoming a European socialism . . .

Action and reaction: On the one side, the weakness of Hitlerian and Mussolinian socialism prevented it from crossing national borders and becoming a European nationalism; on the other, the narrowness of Mussolinian and Hitlerian nationalism stifled its socialism, reducing it to a form of military statism. . .

Source: Pierre Drieu La Rochelle, Textes retrouvées (Paris: Eds. du Rocher, 1992).

dimanche, 26 décembre 2010

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

La cultura accademica e il nazionalsocialismo

Luca Lionello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Segnaliamo volentieri ai nostri lettori la recente uscita del libro curato da Pier Giorgio Zunino, Università e Accademie negli anni del fascismo e del nazismo, pubblicato dall’Editore Olschki di Firenze: si tratta degli atti di un convegno internazionale tenuto a Torino nel 2005, che si è occupato dei rapporti tra i regimi italiano e tedesco e filosofi, storici, scienziati e accademici di ogni ramo. È una pubblicazione di grande importanza – se pure a tratti pesantemente orientata – per lo studio in profondità di un argomento troppo spesso affrontato per luoghi comuni. Per brevità, faremo qui solo poche osservazioni relativamente al caso tedesco, forse meno noto e comunque in Italia più che altrove sottoposto a poco scientifiche generalizzazioni.

L’argomento dell’apporto della classe filosofica al potenziamento dell’ideologia nazionalsocialista è indagato da Hans Jörg Sandkühler che, dopo aver ricordato l’adesione alla Dichiarazione a favore di Adolf Hitler, sottoscritta nel 1933 da circa mille professori tedeschi (tra cui luminari come Heidegger, Gadamer, Gehlen, Rothacker, Freyer), ricorda che nel Terzo Reich non c’era l’obbligo di iscrizione al Partito: cionondimeno i summenzionati accademici furono Parteigenossen. Dal loro impegno risultò la volontà di creare una «scienza nuova» che partecipasse alla «costruzione di una visione del mondo nazionalsocialista»… si trattava insomma di un sapere in progress, come si dice, non dogmatico, ma in divenire… tanto che un altro degli autori, Gereon Wolters, nel capitolo intitolato Il “Führer” e i suoi pensatori, scrive: «Sostengo inoltre che alla filosofia coltivata nelle università restava, nel Terzo Reich, uno spazio abbastanza ampio in cui muoversi…». Del resto, come ricorda Sandkühler, la macchina burocratica di quel Regime non solo permise tra gli altri al filosofo Joachim Ritter – in passato simpatizzante della “sinistra” – di iscriversi alla NSDAP, ma anche respinse varie denunce di zelanti colleghi, con la motivazione che a quel professore, se espulso, si sarebbe recato danno: «sarebbe per lui una cosa estremamente complessa, dal punto di vista umano, doversi cercare un nuovo lavoro». Tanta sensibilità non fu riservata a molti filosofi nazisti nel dopoguerra “democratico”, quando, ad esempio Alfred Baeumler, cacciato dall’Università, dovette scontare ben tre anni di prigione per aver diffuso le sue idee, mentre a molti altri – tra cui Heidegger – venne per lungo tempo oppure per sempre proibito l’insegnamento…

 

Per converso, singolare per la sua ottusità, se non proprio esilarante, appare l’affermazione di Wolters sul prestigio filosofico che a suo dire avrebbero avuto i capi del comunismo… in confronto con l’incolta mediocrità che invece connoterebbe quelli nazionalsocialisti. Questa l’argomentazione: «Gli ideatori del comunismo avevano un’affinità più o meno grande con la filosofia. Karl Marx, ad esempio… Engels e Lenin erano menti filosofiche… si può dire la stessa cosa persino di Stalin… Non è lo stesso per i gerarchi nazisti». Questi ultimi vengono definiti, a cominciare da Hitler, Goering e Himmler, come una serie di ignoranti falliti… tra i quali il solo Goebbels sarebbe stato «l’istruito del governo». Anche se lo stesso Wolters scrive – certo senza accorgersi della contraddizione – che Hitler, nella sua teoria politico-razziale, venne anticipato – «in maniera molto simile», si precisa – niente meno che da Fichte, uno dei maggiori filosofi della cultura mondiale: non male per un “analfabeta”, come è stato definito Hitler da Viktor Klemperer e da altri. E questo, nonostante che svariati studi – come il recente La biblioteca di Hitler di Timothy W. Ryback (Mondadori) – abbiano dimostrato invece la vastità degli interessi culturali di Hitler. Che, se non fu laureato, egualmente non lo furono personaggi del rango di uno Spengler, di un Croce, di un Papini, di un Prezzolini… Ora, per parlar male del Nazionalsocialismo, a nostro giudizio non occorrerebbe dire sciocchezze o affermare rozzamente dei falsi facilmente verificabili. Innanzi tutto, si noterà che Wolters contrappone gli “ideatori” del comunismo ai “gerarchi” del Nazionalsocialismo: cioè paragona due specie diverse, i filosofi e i politici.

Per fare un raffronto equivalente, bisognerebbe infatti che anche nel caso nazista fossero chiamati in causa gli “ideatori” filosofici della sua ideologia: e allora ci si potrebbe rifare al marxista György Lukàcs, che nel suo famoso libro La distruzione della ragione del 1959 provò, in centinaia di fitte pagine, che la Weltanschauung nazista aveva come diretti ascendenti i protagonisti dell’intera cultura dell’idealismo tedesco, da Hegel, Fichte e Schelling fino a Schopenhauer e oltre: cosa che certo non può vantare il comunismo, ristretto ad alcuni e pochi studiosi di economia, spesso autodidatti (a cominciare da Engels, che non terminò nemmeno il liceo). Quanto poi a definire Stalin “filosofo”, beh… neppure i più servili “socialisti reali” si azzardarono mai a tanto. È del resto noto che Stalin come massima frequentazione culturale poté vantare solo un breve soggiorno presso un seminario ortodosso georgiano e non varcò mai la soglia di un’accademia…

In proposito, attiriamo l’attenzione sul fatto che il nostro “democratico” autore trascura – per ignoranza? – l’evidenza da tutti conosciuta, e cioè che proprio tra i gerarchi del Terzo Reich figurava un numero singolarmente alto di laureati: non il solo Goebbels (in filosofia), ma ad esempio – per limitarci ai più in vista – lo erano anche Hans Frank, Arthur Seyss-Inquart, Wilhelm Frick, Hans Kerrl (tutti e quattro in giurisprudenza), Baldur von Schirach (germanistica), Albert Speer e Alfred Rosenberg (architettura), Walter Funk (economia), Bernard Rust e Robert Ley (filosofia), eccetera eccetera. A scorrere il libro di Michael Grüttner Biografische Lexicon zur nationalsozialistischen Wissenschaftspolitik, recentemente pubblicato in Germania dalle Edizioni Synchron di Heidelberg, si constata inoltre che le centinaia di intellettuali biografati, professori, scienziati, rettori di università, presidenti di istituti scientifici, membri di accademie e alte scuole, studiosi di ogni disciplina, costituirono l’ossatura del partito nazista e delle sue organizzazioni politico-culturali, ma non di rado anche di istituzioni ad ancora più elevato tasso ideologico che non la NSDAP, come ad esempio la Ahnenerbe, il SD o le SS.

In questa rapida analisi, ci soccorre il testo di Max Weinreich I professori di Hitler (Il Saggiatore), che letteralmente pullula di nomi di meno noti, famosi e spesso eminenti intellettuali che aderirono al Nazionalsocialismo, non solo passivamente o per convenienza, ma in modo attivo, militante, prendendo parte a nuove istituzioni, scuole, corsi di studio, sovente ricoprendo al contempo cariche politiche e sempre condividendo le scelte del Regime, dall’imperialismo all’antiebraismo.

Ne è un esempio tra i tanti l’Istituto del Reich per la Storia della Nuova Germania, fondato nel 1935. Di esso, tanto per fare solo un cenno, fecero parte personaggi come Wilhelm Stapel (uno dei maggiori esponenti della “Rivoluzione Conservatrice”), il professore di sociologia all’Università di Lipsia Hans Freyer, lo storico della filosofia Max Wundt dell’Università di Tubinga, il filologo germanista Otto Höfler (collaboratore dell’Ahnenerbe, professore a Vienna e ancora nel dopoguerra riconfermato come membro dell’Accademia Austriaca delle Scienze), il fisico Philipp Lenard (premio Nobel, che ebbe tra i suoi allievi Einstein), lo storico Karl Alexander von Müller, presidente della sezione bavarese della Deutsche Akademie (di cui fece parte anche il filosofo e psicologo Ludwig Klages), lo storico dell’Università di Jena Johann von Leers (tre lauree, cinque lingue parlate correntemente: lo stesso che nel dopoguerra troverà rifugio prima in Argentina, poi nell’Egitto di Nasser), nonché ad esempio lo storico austriaco Heinrich von Srbik o studiosi più noti al grande pubblico, come i filosofi Alfred Baeumler ed Ernst Krieck o l’antropologo Hans F. K. Günther… e così via: tutti costoro erano iscritti alla NSDAP o alle sue diramazioni e attivi promotori di iniziative di divulgazione politica ufficialmente riconosciute.

A questi casi – che assommano non a decine, ma a centinaia di intellettuali di rilievo, molti dei quali ancora oggi ricordati nelle storie delle rispettive discipline – non possiamo non aggiungere i nomi celebri di Heidegger, Schmitt, Strauss, Hauptmann, Weinheber… ai quali affianchiamo casi di chiara fama, come quelli dei filosofi Arnold Gehlen, Friedrich Gogarten, Hans-Georg Gadamer, Oskar Becker, Nicolai Hartmann, Joachim Ritter, Erich Rothacker (il fondatore dell’antropologia filosofica e maestro del giovane Habermas)… e ci fermiamo qui per non annoiare il lettore con un elenco che potrebbe durare parecchio… Ad ogni buon conto, anche questi ultimi erano tutti membri del Partito o delle sue leghe professionali e aperti sostenitori del Regime, e nel dopoguerra – opportunamente mimetizzatisi, secondo una pratica ben conosciuta anche in Italia – assursero al rango di autorità internazionali. Ma anche quei pochi cattedratici che non furono nazionalsocialisti, ma solo “fiancheggiatori”, svolsero una funzione intellettuale di impegno pubblico in aperto appoggio al Regime: e si cita il caso tipico del grande storico Gerhard Ritter – cui è dedicato nel libro della Olschki un intero capitolo -, il cui nazionalconservatorismo finì col diventare, specialmente dal 1936 e fino alla fine del 1944, del tutto indistinguibile dall’ideologia nazista, conferendole ulteriore prestigio culturale.

Di fronte a questi dati, sembra impallidire non poco l’abituale refrain secondo cui l’avvento del Terzo Reich avrebbe significato la persecuzione della cultura, l’esilio degli intellettuali (tra i quali solo Thomas Mann e Einstein erano di primo piano) oppure il rogo dei libri: che non fu evidentemente un rogo “dei libri”, ma più esattamente un rogo “di certi libri”, a torto o a ragione giudicati incongrui alla propria visione del mondo. Secondo una liturgia simbolica popolare, del resto, direttamente attinta da deplorevoli pratiche per secoli largamente in uso presso la Chiesa cristiana…

Dalla mole documentale portata da studiosi di ogni tendenza siamo dunque forzati a concludere che il Terzo Reich fu un regime massicciamente sostenuto dalla classe degli intellettuali, tra i quali figurarono nomi tra i maggiori della cultura europea del Novecento. Si tratta di una realtà che non trova paragoni – se non in Italia – con gli altri coevi governi, totalitari o democratici che fossero. È questa la conclusione cui giunge per l’appunto lo storico Pier Giorgio Zunino nella premessa al libro di Olschki da noi segnalato, quando, parlando del «corale consenso» da cui furono circondati il Fascismo e il Nazionalsocialismo, scrive che «furono loro, gli intellettuali… ad aprire per primi il catalogo delle presenze sociali che più largamente avevano aderito a quei regimi».

* * *

Tratto da Linea del 23 gennaio 2009.

mercredi, 01 décembre 2010

Un grand catholique: Carl Schmitt

Un grand catholique : Carl Schmitt

par Rémi Soulié

Ex: http://stalker.hautetfort.com/ 

Série: (Infréquentables, 6) - Tous les infréquentables.

Le texte de Rémi Soulié, ci-dessous légèrement amendé, a paru dans le numéro spécial de La Presse littéraire consacré aux écrivains infréquentables.

«Je tiens Carl Schmitt pour un profond penseur catholique…»
Jacob Taubes.


carl_schmitt9999.jpgAucun bricolage néo-kantien ne pourra longtemps masquer le nihilisme démocratique et la vacuité moderne – d’autant moins d’ailleurs que cet excellent lecteur de Kant que fut Jacobi diagnostiqua parmi les premiers la maladie nihiliste que les trois Critiques incubèrent fort peu de temps avant qu’elle ne se déclare. L’Europe, c’est-à-dire très exactement la chrétienté selon Novalis, ne pourra réagir qu’en opposant son antidote souverain : le catholicisme. On peut prendre la question dans tous les sens, ce n’est qu’en réactivant l’interrogation théologico-politique, comme l’ont compris Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt, mais aussi Leo Strauss et Jacob Taubes d’un point de vue juif, donc, en dernière analyse, chrétien, que l’on pourra faire rendre gorge au néant. L’adhésion très temporaire de Carl Schmitt au NSDAP (après d’ailleurs qu’il a mis tout Weimar en garde, dès 1932, sur le danger national-socialiste et l’urgence à interdire, par l’article 48 de la Constitution, les partis communiste et nazi) ne s’explique là encore que par la mystique au sens de Péguy – et non la politique: le catholique conséquent croyant en l’existence de l’univers invisible et donc des mauvais anges peut être abusé par les ruses et les séductions de l’Ennemi (au sens schmittien, d’une certaine façon, nous y reviendrons) jusqu’à prendre des vessies pour des lanternes et le point culminant du nihilisme actif (et non passif, celui-ci relevant de la juridiction démocratique) pour le paroxysme de la vérité. À la lettre oxymorique, il côtoie toujours les cimes des abîmes, comme un abbé Donissan ou un curé d’Ambricourt et à la différence de n’importe quel démocrate-chrétien. Les enfileurs de perles et les analystes du rien, hommes du ni oui ni non, font aujourd’hui écran au théologien politique, homme des affirmations absolues et des négations souveraines fidèle à l’Évangile («Que votre oui soit oui, que votre non soit non», Mt 5, 37) alors que ce dernier est évidemment requis par la tiédeur infernale. Le libéralisme, hostile à toute forme de vision, ne voit bien entendu se profiler aucune eschatologie à l’horizon de sa myopie : il rassemble l’alpha et l’oméga de l’Histoire – formule inadéquate quoique révélatrice de la parodie – dans l’alternance, le marché, l’hédonisme, le sentimentalisme et l’humanitarisme (ce que Schmitt appellera, non sans mépris, «la décision morale et politique dans l’ici-bas paradisiaque d’une vie immédiate, naturelle, et d’une «corporéité» sans problèmes» ou «les faits sociaux purs de toute politique»). Qui décidera de l’état d’exception en cas de guerre civile ? Le souverain, soit, personne (l’anti-personne démoniaque – en ceci, le désespoir demeure en politique une sottise absolue, puisque aussi bien le diable porte pierre).

Né en 1888 dans une famille catholique de Rhénanie lointainement originaire de Lorraine, le jeune Carl Schmitt se définit ainsi : «J’étais un jeune homme obscur, d’ascendance modeste […]. Je n’appartenais ni aux couches dirigeantes, ni à l’opposition […]. La pauvreté et la modestie sociale étaient les anges gardiens qui me tenaient dans l’ombre. C’était un peu comme si, me tenant dans un noir total […] j’avais depuis mon poste observé une pièce vivement éclairée […]. La tristesse qui me remplissait me rendait plus distant et suscitait chez les autres distance et antipathie. Pour les couches dirigeantes, quiconque ne vibrait pas à l’idée de les côtoyer était un corps étranger. Il s’agissait de s’adapter ou de se retirer. Je demeurai donc à l’extérieur.» Il poursuit : «Pour moi, la foi catholique est la religion de mes ancêtres. Je suis catholique non pas seulement par confession, mais par origine historique, et si j’ose dire, par la race» (où l’on notera, avec ce dernier terme, l’influence de Péguy).
Lecteur de L’Action Française, francophile, classique, latin, Carl Schmitt s’inscrit également dans la lignée des penseurs qui refusèrent l’absolutisation de la raison trop humaine aux côtés du Karl Barth commentateur de l’Épître aux Romains dans le domaine protestant ou de Martin Buber dans les études juives, fussent-elles hétérodoxes. Si, comme il l’affirme, tous les concepts fondamentaux de la théorie moderne de l’État sont des concepts théologiques sécularisés – ainsi, par exemple, de l’état d’urgence pensé en analogie avec le miracle puisque dans l’un et l’autre cas, la législation naturelle ou politique est rompue par ceux-là mêmes qui l’ont instituée –, seule la théologie permettra de cerner la vérité des sociétés qui croient s’être affranchies de l’une et de l’autre. Le libéralisme nie l’essence de la haute politique qui suppose, en termes schmittiens, un ennemi c’est-à-dire un conflit (chez les pères de l’Église et saint Augustin en particulier, l’Ennemi, c’est le Mauvais, ce qui peut être également le cas chez Schmitt dès lors que la dramaturgie historique oppose in fine le Christ et l’Antéchrist). En niant l’immortalité de l’âme ou en renvoyant cette croyance dans la sphère privée – ce qui revient au même –, le libéral tente de remplacer la tragédie par le vaudeville. La haute politique présuppose la croyance dans le péché originel, la discrimination de l’ami et de l’ennemi qu’elle induit, la dénonciation des leurres de l’Antéchrist – paix perpétuelle, harmonie universelle, gouvernement mondial («Vous savez vous-mêmes que le Jour du Seigneur arrive comme un voleur en pleine nuit. Quand les hommes se diront : Paix et Sécurité ! c’est alors que tout d’un coup fondra sur eux la perdition, comme les douleurs sur la femme enceinte, et ils ne pourront y échapper» (I Thessaloniciens, 5, 2-3) -, l’acceptation de notre condition de créature, donc d’être limité voué à la mort voire au «sérieux» du sacrifice, la décision, enfin, dont l’infaillibilité pontificale pourrait être l’un des modèles. Avec Donoso Cortès, Carl Schmitt considère que le libéralisme et la démocratie consistent soit à ne pas répondre à la question «le Christ ou Barrabas ?» en multipliant les motions de renvoi en commission ou, mieux, en créant une commission d’enquête, soit à y répondre nécessairement par la libération de Barabbas, comme Hans Kelsen en convient d’ailleurs mais pour s’en féliciter, c’est-à-dire par la mise à mort de Dieu – ou, dirait Benny Lévy d’un point de vue juif donc chrétien, par le «meurtre du Pasteur». (L’établissement de la République, en France, releva encore partiellement du domaine politique et donc non libéral puisque les républicains avaient désigné en l’Église catholique l’ennemi «schmittien», et c’était de bonne guerre cela va de soi; la «lutte millénaire entre le christianisme et l’islam» (La Notion de politique ) en est un autre exemple).
Comme aucun discours véridique ne peut être proféré sans que son auteur ne subisse d’une manière ou d’une autre la persécution de ceux-là mêmes à qui il s’adresse ou qu’il défend – toute l’histoire biblique l’atteste –, Schmitt, à l’instar de Maurras, souffrit par l’Église catholique. Sur un coup de tête, il épouse à Munich, pendant la Grande Guerre, une affreuse mythomane originaire de Bohême, Paula Dorotic, qui s’enfuit peu de temps après avec, comble de l’horreur, une partie de sa bibliothèque. Le mariage est annulé civilement le 18 janvier 1924 mais la «bureaucratie de célibataires» que peut être aussi la sainte Église catholique, apostolique et romaine refuse par deux fois d’annuler cette union malencontreuse. Schmitt se résout à se remarier et fut ainsi privé des sacrements jusqu’en 1950, date de la mort de sa seconde épouse. Voilà un signe supplémentaire attestant de son élection.
Excellent papiste, il prend la défense de l’Inquisition, même s’il déplore qu’elle ait été hélas pervertie par l’usage de la torture : «Ce fut une mesure terriblement humaine que la création du «droit inquisitorial» par le pape Innocent III. L’Inquisition fut sans doute l’institution la plus humaine qu’on puisse imaginer, puisqu’elle partait de l’idée qu’aucun accusé ne pouvait être condamné sans aveux […]. En termes d’histoire du droit, l’idée d’Inquisition ne peut guère être contestée, même aujourd’hui» (1).
(On ne s’étonnera pas qu’il argumente une fois encore dans des termes voisins de ceux de Péguy, dans un ordre comparable : «La politique de frapper les têtes (les mauvaises têtes) est une politique d’économie, et même la seule politique d’économie […]. Rien n’est humain comme la fermeté. C’est Richelieu qui est humain – et c’est Robespierre qui est humain. C’est la Convention nationale qui est en temps de guerre le régime de douceur et de tendresse. Et c’est l’Assemblée de Bordeaux et le gouvernement de Versailles qui est la brutalité de la brute et l’horreur et la cruauté. [… ] Tout mon vieux sang révolutionnaire me remonte et […] je ne mets rien au- dessus de ces excellentes institutions d’ancien régime, qui se nomment le Tribunal Révolutionnaire et le Comité de Salut Public et même je pense le Comité de Sûreté Générale… […] et je ne mets rien au-dessus de Robespierre dans l’ancien régime»).

Car Schmitt défendra bien entendu le Grand Inquisiteur contre l’orthodoxe Dostoïevski. En ces temps qui sont les derniers, autrement dit en régime apocalyptique, il écoute les derniers prophètes : «Remarquez-le bien, il n’y a déjà plus de résistances ni morales ni matérielles. Il n’y a plus de résistances matérielles : les bateaux à vapeur et les chemins de fer ont supprimé les frontières, et le télégraphe électrique a supprimé les distances. Il n’y a plus de résistances morales : tous les esprits sont divisés, tous les patriotismes sont morts […]. Il s’agit de choisir entre la dictature qui vient d’en bas et la dictature qui vient d’en haut : je choisis celle qui vient d’en haut, parce qu’elle vient de régions plus pures et plus sereines. Il s’agit de choisir, enfin, entre la dictature du poignard et la dictature du sabre : je choisis la dictature du sabre, parce qu’elle est plus noble».
Une chose est sûre : «Le monde avance à grands pas vers l’établissement du despotisme le plus violent et le plus destructeur que les hommes aient jamais connu […]. Je tiens pour assurer et évident que, jusqu’à la fin, le mal triomphera du bien et que le triomphe sur le mal sera, en quelque sorte, réservé à Notre Seigneur. Il n’est donc aucune période historique qui ne soit destinée à s’achever en catastrophe.»
Ainsi s’exprimait Donoso Cortès au parlement espagnol le 4 janvier 1849 dans son Discours sur la dictature. À Ernst Jünger, Schmitt confiera qu’il considère ce texte comme «le plus extraordinaire discours de la littérature mondiale sans excepter ni Périclès et Démosthène, ni Cicéron ou Mirabeau ou Burke».
Carl Schmitt continue de lire Dostoïevski, Sorel, Bloy, pour qui il a de la «vénération» – c’est lui qui introduit d’ailleurs Jünger à la lecture du Belluaire. Il saluera plus tard «la magnifique confrontation d’un Allemand avec Léon Bloy» dans le Journal de Jünger, qui est «le plus grand document de la spiritualité européenne contemporaine.» Comme tout homme bien né, Schmitt attend donc les Cosaques et le Saint-Esprit, soit, la Rédemption – d’où son influence sur Benjamin, qui lui envoie ses Origines du drame baroque allemand et l’assure de l’influence méthodologique de La Dictature sur ses propres réflexions esthétiques mais aussi de sa dette à l’endroit de sa «présentation de la doctrine de la souveraineté au XVIIe siècle», sur Leo Strauss également ou sur l’«archijuif» – comme il se définissait lui-même – Jacob Taubes. Une étude sérieuse des relations entre Carl Schmitt, les Juifs et le judaïsme, que l’on attend toujours (2), devrait également intégrer la notion cardinale de Nomos : si Schmitt se refuse de la traduire par «loi», ce qui pourrait être hâtivement interprété comme une oblitération du judaïsme, il la comprend à partir des trois catégories fondamentales qui y sont incluses – prendre, partager et paître – ce dernier terme engageant certes le Bon Pasteur christique mais également… David ou Moïse (3). Sans mythe structurant, les agnostiques modernes, eux, collaborent pendant ce temps à la damnation du monde tout en jacassant.
Mais c’est surtout par l’analyse de la figure essentielle du katékhon que Carl Schmitt manifeste une hauteur de vue et un sens aigu de l’Histoire toujours sainte dont la pertinence demeure bouleversante. Pour la comprendre, il faut se reporter à un passage particulièrement difficile de la deuxième Épître aux Thessaloniens de saint Paul concernant ce qui précèdera la parousie : «Il faut que vienne d’abord l’apostasie et que se révèle l’Homme de l’impiété, le Fils de la perdition […]. Et maintenant, vous savez ce qui le retient [tò katékhon], pour qu’il ne soit révélé qu’en son temps. Car le mystère de l’impiété est déjà à l’œuvre; il suffit que soit écarté celui qui le retient [ho katékhon] à présent. Alors se révèlera l’Impie, que le Seigneur Jésus détruira du souffle de sa bouche» (2, 3-9). Qui est ce Katékhon, ce «Rétenteur» ou «Retardateur» dont le rôle est ambigu puisqu’à la fois il empêche la survenue des catastrophes finales mais en même temps retarde d’autant la seconde venue du Christ en gloire et donc de la fin de l’histoire puis du Jugement ? Est-il personnel ? Impersonnel ? Saint Jérôme et saint Jean Chrysostome l’identifièrent avec l’Empire romain; dans la terminologie schmitienne, ce rôle semble tenu successivement par le dictateur commis ou souverain, le défenseur de la Constitution ou le Léviathan, ceci étant révélateur de sa propre hésitation entre la nécessité de conserver partiellement ce qui est et sa non moins nécessaire liquidation partielle ou totale (où Bloy s’impatiente, Schmitt temporise). Voilà pour l’interprétation positive. Sur un plan mystique, ce thème manifeste la nécessité de maintenir ouverte la brèche qui déchire la terre, monte au ciel et plonge en enfer, pendant le règne vermineux du dernier homme (règne possiblement antéchristisque, ce qui infirmerait la pérennité de l’action katékhontique). En elle est serti le roc de Pierre, le Corps visible de Jésus-Christ que cette tension ne parvient pas à écarteler. La mission katékhontique relève peut-être de l’Église catholique, et en particulier de l’ordre jésuite, comme Schmitt le suggère dans son Glossarium : elle seule détiendrait le pouvoir mystérieux de prononcer en même temps le «Marana Tha» de l’Apocalypse – «Viens, Seigneur Jésus !» – et la demande d’un délai de grâce (Schmitt sait que le temps n’est pensable qu’en terme de délai, comme tous les Juifs conséquents). D’une manière énigmatique, comme il convient d’évoquer ces questions, il écrit à Pierre Linn en 1932 : «Vous connaissez ma théorie du katékhon. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur concret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler aux théologiens, car je connais le sort déplorable du grand et pauvre Donoso Cortès. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire». Jacob Taubes, grand interlocuteur de Schmitt, comprend simplement le katékhon, dans sa Théologie politique de Paul, comme une tentative de dominer le chaos par la forme.
À ceux qui prétendent que l’Église catholique a désamorcé la charge évangélique, Schmitt répond que la juridisation est la réalisation : «Car qu’est-ce que le droit ? La réponse de Hegel est : le droit est l’Esprit se rendant effectif. […] L’Église romaine est réalité historique». Théodore Paléologue a donc raison de considérer que «la politisation schmittienne du katékhon répond à la conviction que l’Esprit doit se rendre effectif et que toute idée chrétienne est une idée incarnée».
«Homme de contemplation», comme il se définissait lui-même, dont «le centre inoccupable» de la pensée «n’est pas une idée, mais un événement historique, l’Incarnation du Fils de Dieu», grand démystificateur des impuissances libérales et de leur juridisme – lequel ne serait que ridicule s’il n’était enclin au totalitarisme – Carl Schmitt a dénoncé le misérable «affect anti-romain» sous la domination duquel nous survivons. Comme Heidegger, dit Jacob Taubes, il a posé des questions fondamentales, en ceci précisément intolérables au libéralisme (qui ne tolère que les insignifiantes), d’où son éviction et la «récitation» obligatoire, dit toujours Taubes, de «l’ABC démocratique» qui doit s’en suivre. Schmitt définit «la clé secrète de toute [son] existence spirituelle et de toute [son] activité d’auteur» comme «le combat pour la radicalisation authentiquement catholique», laquelle constitue sans doute aussi le «savoir intègre» qu’il appelait de ses vœux, au service de la «pensée concrète de l’ordre». Une certitude néanmoins : «Jusqu’au retour du Christ, le monde ne connaîtra pas l’ordre».

Carl Schmitt est mort le dimanche de Pâques 7 avril 1985.

Notes
(1) En 1936 (N.d.a.), Schmitt s’inscrit ici dans la lignée de Joseph de Maistre pour qui «L’inquisition est, de sa nature, bonne, douce, conservatrice».
(2) Je ne méconnais pas l’étude de Raphaël Gross, Carl Schmitt et les Juifs (PUF, 2005, préface d’Yves-Charles Zarka, traduction de Denis Trierweiler) mais elle est hélas exclusivement à charge.
(3) Voir, à nouveau, le très beau livre de Benny Lévy, Le Meurtre du Pasteur (Grasset, 2002) mais, également, Rémi Soulié, Avec Benny Lévy (Le Cerf, 2009).

Bibliographie succincte
- Carl Schmitt, Théologie politique (Gallimard, 1988).
- Heinrich Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss et la notion de politique. Un dialogue entre absents (Julliard, 1990).
- Sous la direction de Carlos-Miguel Herrera, Le droit, le politique. Autour de Max Weber, Hans Kelsen, Carl Schmitt (L’Harmattan, 1995).
- Jacob Taubes, La Théologie politique de Paul. Schmitt, Benjamin, Nietzsche et Freud, Seuil, 1999 et En divergent accord. À propos de Carl Schmitt (Payot, 2003).
- Théodore Paléologue, Sous l’œil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique (Cerf, 2004).
- David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle (Cerf, 2005).
- Gopal Balakrishnan, L’Ennemi. Un portrait intellectuel de Carl Schmitt (Éditions Amsterdam, 2006).

L'auteur
Rémi Soulié, né en 1968 en Rouergue. Essayiste, critique littéraire au Figaro Magazine, il a récemment consacré un essai à Benny Lévy (Le Cerf, 2009) et prépare une étude, De l'Histoire sainte : Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt.

mercredi, 24 novembre 2010

39-45: les dossiers oubliés, retour sur les crimes soviétiques et américains

39-45 : les dossiers oubliés - retour sur les crimes soviétiques et américains

VARSOVIE (NOVOpress) – Boguslaw Woloszanski, journaliste polonais, continue dans son nouvel ouvrage, 39-45 : les dossiers oubliés, aux Editions Jourdan, d’explorer les faces méconnues de la Seconde Guerre mondiale, sur la base notamment de la récente ouverture des archives de l’ex-Union Soviétique.

Le premier chapitre du livre est d’ailleurs consacré aux manœuvres de l’un des plus grands criminels de l’histoire du XXème siècle : Joseph Staline. Où comment l’ami de Lénine [1] liquida en 1937 le chef de son armée, Mikhaïl Nikolaïevitch Toukhatchevski, danger pour son pouvoir absolu, avec l’aide… du régime hitlérien, trop heureux de priver l’Armée Rouge de son officier le plus talentueux.

Boguslaw Woloszanski rappelle aussi les coups tordus perpétrés par les démocraties occidentales durant ce conflit qui saigna à blanc le continent européen. L’auteur souligne pourquoi des centaines de Canadiens furent sacrifiés à Dieppe le 19 août 1942 alors que seulement 50 Américains débarquèrent sur le sol normand ce jour là.

Les Etats-Unis mirent le paquet en revanche pour s’attaquer à des cibles non militaires. Boguslaw Woloszanski revient sur les raids aériens américains sur Tokyo [2] en 1945. Celui du 9 au 10 mars fut le plus meurtrier des bombardements de la Seconde Guerre mondiale : 100 000 victimes, pour la plupart brûlées vives. Il dépassa en nombre de victimes les bombardements d’Hambourg en juillet 1943 ou de Dresde en février 1945 [3]. Au cours des sept derniers mois de cette campagne, ce type d’actions a provoqué la destruction de 67 grandes villes japonaises, causant plus de 500 000 morts et quelque 5 millions de sans abri. Pourtant, aucun général américain ne fut traduit devant un tribunal international pour ces crimes de guerre.


[cc [4]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[http://fr.novopress.info [5]]


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

URL to article: http://fr.novopress.info/72388/39-45-les-dossiers-oublies-retour-sur-les-crimes-sovietiques-et-americains/

URLs in this post:

[1] l’ami de Lénine: http://fr.novopress.info/16199/russie-une-statue-de-lenine-dynamitee-a-saint-petersbourg/

[2] raids aériens américains sur Tokyo: http://les3abeilles.lefora.com/2010/09/23/les-bombardements-sur-tokyo-2/

[3] Dresde en février 1945: http://fr.novopress.info/466/dresde/

[4] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[5] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

jeudi, 18 novembre 2010

Pétain & De Gaulle: Two Figures of a Tragic Destiny

Pétain & De Gaulle:
Two Figures of a Tragic Destiny

Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

marechal_petain.jpgPétain, De Gaulle . . . Let us think for a moment about those personages from a far-off time.

First, what a astonishing destiny for Marshal Pétain! To have risen so high and fallen so low! In the long history of France, other great personages were admired, but surely none was loved more before being denigrated so much.

His misfortune was to inherit not only a defeat in which he played no part, but also a people, once great, that had fallen terribly low. Yet, he never gave up on his people.

General De Gaulle, whose destiny so often crossed his, did not nourish the same hopes or the same illusions: “I bluffed,” he confided to Georges Pompidou around 1950, “but the 1st army, they were Negroes and Africans [he meant to say “pied-noirs”]. The Leclerc division had 2,500 engaged in Paris. Actually, I saved face, but France did not follow. They collapsed! From the bottom of my heart, I tell you: all is lost. France is finished. I will have written the last page.” [1]

Even at his worst moments, Pétain could not have thought that.

He was born in 1856 to a peasant family in Picardy, under the reign of Napoleon III, before the automobile and electricity. Three times, he saw his fatherland invaded, in 1870, in 1914, and in 1940. The first time, he was a teenager, and his dream of revenge made him a soldier.

In 1914, he was 58 years old. His independence of mind had put the general’s stars out of reach. A mere colonel, he prepared to retire. The assassination of an Austrian archduke in Sarajevo and the conflagration of Europe decided otherwise. In the crucible, he was suddenly revealed. Four years later, he was that commander and chief of the victorious French Armies of 1918 and received the baton of Marshal of France. Of all the great leaders of this atrocious war, he was the only one loved by the soldiers. Unlike so many of his peers, he did not see his men as raw material. The victor of Verdun was one of the few who understood there is no point in winning if one’s own country is bled to death.

There are many explanations of the defeat of 1940, but for the old Marshal, one of the main causes was in the appalling bloodletting of 1914 to 1918. The holocaust of a million and half of young men had killed the energy of a whole people.

General-Charles-De-Gaulle.jpgThus the first priority was to keep these people as safe as possible from another slaughter. At the same time, Pétain hoped for a future renaissance through a “national revolution.” He has been attacked for that. Admittedly, all would be mortgaged by the Occupation. But really he had no choice. The “national revolution” was not premeditated. With all its ambiguities, it emerged spontaneously as a necessary remedy to the evils of the previous regime.

Today, in the safety and the comfort of a society at peace, it is easy to pass categorical judgments on the men of this that time. But those brutal, pitiless days could not be appeased by moral petitions. At every moment, they required decisions with cruel consequences that could lead to, as so often in times of war, to saving some lives by sacrificing others.

In Cangé, in the Council of Ministers, on June 13rd, 1940, having taken the full measure of the disaster, Marshal Pétain, his voice broken, outlined the policy he followed to the end, in 1944: “I declare that as far as I am concerned, outside of the government, if need be, I refuse to leave French soil. I will remain among the French people to share their sorrows and miseries.”

For those who did not assume the responsibility of government, it was permissible to take another side and symbolically raise the challenge of arms. And it is salubrious that some brave men made this choice. But what does that take away of the nobility to the sacrificial resolution of Marshal Pétain?

General De Gaulle’s adversaries try to minimize the scope and nobility of his own gesture, the call to open resistance. They point out that the Marshal’s former protégé had not jumped into the adventure without a parachute. They add that facing the Germans from London, behind a microphone, was less perilous than doing so in France in dramatic, unequal, daily interactions. Perhaps. But, parachute or not, the General’s choice to rebel was of rare audacity. The fruit of an unrestrained ambition, his detractors reply. Surely. But what can one accomplish without ambition?

This type of ambition, however, was lacking in Marshal Pétain. At the age of 84, with his record, he had nothing more to prove and everything to lose.

If our time were less intoxicated with petty politics and base resentments, we would have long ago celebrated the complementarity of two men who redeemed, each in his own fashion, that which is small, vile, and abject in our times.

Note:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité (Paris: Flammarion, 1982), p. 128.

Source: Nouvelle Revue d’Histoire, no. 50, http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-50-petain-de-ga...

lundi, 08 novembre 2010

Fidus: c'est ainsi que se voyait la jeunesse

Michael MORGENSTERN :

Fidus : c’est ainsi que se voyait la jeunesse

 

fidus45.jpg« Ce qui s’avère nécessaire pour nous, maintenant, ce n’est pas encore davantage d’artificialité ou de luxe technique, mais de nous habituer à éprouver à nouveau de la joie face à notre authenticité spirituelle et à la naturalité de nos corps ; oui, vraiment, nous avons besoin d’apprendre à tolérer la beauté naturelle, du moins dans le domaine de l’art », écrivait Fidus dans le volume édité par Eugen Diederichs pour donner suite de la fameuse rencontre organisée par le mouvement de jeunesse allemand sur le sommet du Hoher Meissner en 1913. Le motif qui l’avait incité à écrire ces lignes fut l’exposition d’un dessin qu’il avait réalisé à l’occasion de cette réunion des jeunes du Wandervogel, un dessin qui s’intitulait « Hohe Wacht » et qui représentait de jeunes hommes nus portant l’épée et aux pieds desquels se trouvaient couchées des jeunes filles, également nues. L’image avait causé un scandale. Plus tard, un dessin de Fidus deviendra l’image culte et le symbole du mouvement de jeunesse ; il était intitulé « Lichtgebet », « Prière à la Lumière ». Sur un rocher isolé, un jeune homme nu étendait les bras et le torse vers le soleil, le visage empreint de nostalgie.

 

Fidus, un artiste célèbre de l’Art Nouveau (Jugendstil) et l’interprète graphique de la « Réforme de la Vie » (Lebensreform) et du néopaganisme, était né sous le nom de Hugo Höppener à Lübeck en 1868, dans le foyer d’un pâtissier. Ses parents l’envoyèrent à l’Académie des Beaux-Arts de Munich, où, très rapidement, il se lia d’amitié avec un peintre excentrique, apôtre d’une nouvelle adhésion à la nature, Karl-Wilhelm Diefenbach. Celui-ci, accompagné de quelques-uns de ses élèves, se retirait régulièrement dans une ancienne carrière abandonnée sur une rive de l’Isar pour y vivre selon les  principes du mouvement « Réforme de la Vie ». Diefenbach pratiquait le naturisme, ce qui alerta les autorités bavaroises qui, très vite, firent condamner le fauteur de scandale à la prison. Höppener accepta de suivre son maître en prison, ce qui induisit Diefenbach à le surnommer « Fidus », le Fidèle.

 

Plus tard, revenu à Berlin, il prendra pour nom d’artiste le surnom que lui avait attribué son maître. Dans la capitale prussienne, il fut d’abord l’illustrateur d’une revue théosophique, Sphinx, ce qui lui permit d’accéder assez vite à la bohème artistique et littéraire berlinoise. Dès ce moment, on le sollicita constamment pour illustrer des livres et des revues ; il travailla aussi pour la revue satirique Simplizissimus puis pour la revue munichoise Jugend, créée en 1896. Cette revue doit son nom au Jugendstil, au départ terme injurieux pour désigner les nouvelles tendances en art. Contrairement au naturalisme, alors en vogue, le Jugendstil voulait inaugurer un style inspiré d’un monde posé comme harmonieux et empreint de spiritualité, que l’on retrouve dans l’univers onirique, dans les contes, dans les souvenirs d’enfance ; et inspiré aussi d’une nostalgie de la plénitude. Une ornementation végétale devait symboliser le refus du matérialisme banal de la société industrielle. Suite à une cure végétarienne de blé égrugé, qui le débarrassa d’une tumeur qui le faisait souffrir depuis son enfance, Fidus/Höppener devint un végétarien convaincu, ouvert, de surcroît, à toutes les médecines « alternatives ».

 

Il cherchait une synthèse entre l’art et la religion et se sentait comme le précurseur d’une nouvelle culture religieuse de la beauté qui entendait retrouver le sublime et le mystérieux. Cela fit de lui un visionnaire qui s’exprima en ébauchant des statues pour autels et des plans pour des halls festifs monumentaux (qui ne furent jamais construits). A ses côtés, dans cette quête, on trouve les frères Hart, Bruno Wille et Wilhelm Bölsche du cercle de Friedrichshagen, avec lesquels il fonda le « Bund Giordano Bruno », une communauté spirituelle et religieuse. En 1907, Fidus se fit construire une maison avec atelier dans le quartier des artistes « réformateurs » de Schönblick à Woltersdorf près de Berlin. Plus tard, une bâtisse supplémentaire s’ajouta à cet atelier, pour y abriter sa famille ; elle comptait également plusieurs chambres d’amis. Bien vite, cette maison devint le centre d’un renouveau religieux et un lieu de pèlerinage pour Wandervögel, Réformateurs de la Vie, Adorateurs de la Lumière et bouddhistes, qui voyaient en Fidus leur gourou. Le maître créa alors le « Bund de Saint Georges », nommé d’après le fils d’un pasteur de Magdebourg qui, après une cure de jeûne, était décédé à Woltersdorf. Fidus flanqua ce Bund d’une maison d’édition du même nom pour éditer et diffuser ses dessins, tableaux, impressions diverses et cartes postales. Dans le commerce des arts établis, le Jugendstil fut éclipsé par l’expressionisme et le dadaïsme après la première guerre mondiale.

 

fidus1.jpgLes revenus générés par cette activité éditoriale demeurèrent assez sporadiques, ce qui obligea les habitants de la Maison Fidus, auxquels s’était jointe la femme écrivain du mouvement de jeunesse, Gertrud Prellwitz, à adopter un mode de vie très spartiate. L’avènement du national-socialisme ne changea pas grand chose à leur situation. Fidus avait certes placé quelque espoir en Adolf Hitler parce que celui-ci était végétarien et abstinent, voulait que les Allemands se penchent à nouveau sur leurs racines éparses, mais cet espoir se mua en amère déception. La politique culturelle nationale-socialiste refusa de reconnaître la pertinence des visions des ermites de Woltersdorf et stigmatisa « les héros solaires éthérés » de Fidus comme une expression de l’ « art dégénéré ». Dans le catalogue de l’exposition sur l’ « art dégénéré » de 1937, on pouvait lire ces lignes : « Tout ce qui apparaît, d’une façon ou d’une autre, comme pathologique, est à éliminer. Une figure de valeur, pleine de santé, même si, racialement, elle n’est pas purement germanique, sert bien mieux notre but que les purs Germains à moitié affamés, hystériques et occultistes de Maître Fidus ou d’autres originaux folcistes ». L’artiste ne recevait plus beaucoup de commandes. Beaucoup de revues du mouvement « Lebensreform » ou du mouvement de jeunesse, pour lesquelles il avait travaillé, cessèrent de paraître. Sa deuxième femme, Elsbeth, fille de l’écrivain Moritz von Egidy, qu’il avait épousée en 1922, entretenait la famille en louant des chambres d’hôte (« site calme à proximité de la forêt, jardin ensoleillé avec fauteuils et bain d’air, Blüthner-Flügel disponibles »). L’ « original folciste » a dû attendre sa 75ème année, en 1943, pour obtenir le titre de professeur honoris causa et pour recevoir une pension chiche, accordée parce qu’on avait finalement eu pitié de lui.

 

Pour les occupants russes, qui eurent à son égard un comportement respectueux, Fidus a peint des projets d’affiche pour la célébration de leur victoire, pour obtenir « du pain et des patates », comme il l’écrit dans ses mémoires en 1947. Le 23 février 1948, Fidus meurt dans sa maison. Ses héritiers ont respecté la teneur de son testament : conserver la maison intacte, « comme un lieu d’édification, source de force ». Jusqu’au décès de sa veuve en 1976, on y a organisé conférences et concerts. La belle-fille de Fidus a continué à entretenir vaille que vaille la maison, en piteux état, jusqu’à sa propre mort en 1988. La RDA avait classé le bâtiment. Les œuvres d’art qui s’y trouvaient avaient souffert de l’humidité et du froid : en 1991, la « Berlinische Galerie » a accepté de les abriter. La maison de Fidus est aujourd’hui vide et bien branlante, une végétation abondante de ronces et de lierres l’enserre, d’où émerge sa façade en pointe, du type « maison de sorcière ». Il n’y a plus qu’un sentier étroit qui mène à une porte verrouillée.

 

Michael MORGENSTERN.

(article paru dans « Junge Freiheit », n°5/1995 ; http://www.jungefreiheit.de/ - « Serie : Persönlichkeiten der Jugendbewegung / Folge 2 : Fidus » - « Série : Personnalités du Mouvement de Jeunesse / 2ième partie : Fidus » ; trad.. franc. : octobre 2010).   

mercredi, 03 novembre 2010

Walter Darré: Bio-Ecologia del Campesinado

WALTER DARRÉ: BIO-ECOLOGÍA DEL CAMPESINADO

Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/ 

Sebastian J. Lorenz
La antigua nobleza: sangre y tierra.
Walter Darré, alemán nacido en Argentina, autor de “El campesinado como fuente de vida la raza nórdica” y de “Nueva nobleza de sangre y suelo”, y creador de la doctrina conocida como “sangre y suelo” (Blut und Boden) que propugnaba una nueva nobleza de la raza nórdica ligada a la tierra y a la tradición campesina. Fue Reichsminister de Agricultura, líder del campesinado alemán (Reichsbauernführer) y Obergruppenführer-SS, en cuya calidad ostentó el cargo de director de la Oficina de la Raza y el Reasentamiento (Rasse und Siedlungshauptamt-RusHA). Darré contó con el apoyo de Himmler y de la Ahnenerbe, como se vio en capítulos anteriores, hasta que el propio Führer prescindió de sus servicios y depositó su confianza en los abastecimientos producidos gracias a los “planes cuatrienales” de Göering.
Darré no ocultó nunca un decidido nordicismo: «Es la raza germánica – la raza nórdica según la expresión en boga- quien ha insuflado la sangre y la vida de nuestra nobleza; es esta raza la que ha dictado sus costumbres … Pudiéndose demostrar el origen de esta raza localizada en el noroeste de Europa, se llegó a un acuerdo para dar a esta especie de hombres el nombre utilizado por las ciencias naturales de “raza nórdica, también se habla de “hombre nórdico”. Muchos alemanes auténticos se oponen todavía, en su fuero interno, a que se designe como “nórdico” lo que ellos han considerado toda su vida como germánico por auténticamente alemán … Es imposible hablar de “raza germánica” pues entonces llegaríamos a la falsa conclusión de que las culturas romana, griega, persa, etc, fueron creadas por los germanos. Necesitamos una concepción que exprese esta raza, que fue común a todos estos pueblos». A Darré no le gustaban las denominaciones de “arios” ni de “indogermanos”, por tratarse de designaciones exclusivamente lingüísticas, dándose el hecho de pueblos en los que se ha extinguido la “sangre nórdica” pero que conservan una lengua “indogermánica”. La “idea nórdica”, sin embargo, expresaba la raíz misma de lo alemán y de los pueblos europeos emparentados con él, más allá incluso de lo puramente germánico.
El “ideal de la raza nórdica” sólo podía tener un objetivo posible: «conseguir por todos los medios posibles que la sangre creadora en el cuerpo de nuestro pueblo, es decir, la sangre nórdica sea conservada y multiplicada, pues de eso depende la conservación y el desarrollo del germanismo». En consecuencia, la única conclusión para Darré es que «el hecho de que constatemos hoy un fuerte mestizaje en nuestro pueblo no es razón para continuar por el mismo camino. Es, al contrario, una razón para detener indirectamente el mestizaje designando claramente un resultado a alcanzar como objetivo de selección de nuestro pueblo. Hemos absorbido tanta sangre no-nórdica, que incluso si solamente reserváramos el matrimonio a las muchachas de sangre nórdica, conservaríamos todavía durante milenio en el cuerpo de nuestro pueblo partes de sangre no-nórdica suficientes para aportar el más rico alimento a la diversidad de los temperamentos creadores. Por lo demás, toda parcialidad en el terreno de la selección es compensada siempre por una aportación prudente de la sangre deseada, incluso si es no-nórdica, mientras que la purificación de las partes de sangre extraña en el protoplasma hereditario del pueblo devenido no creador por inconscientes mestizajes es difícil … Para inspirarnos nuevamente de la experiencia de la cría de animales, deduciremos que hay que educar al pueblo alemán para reconozca como objetivo al hombre nórdico y, particularmente, sepa discernir sus rasgos en un mestizo. La selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces; así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera …». Veamos ahora cómo pensaba Darré efectuar la selección de la sangre nórdica a través de la fuente pura y original del campesinado germánico.
La nobleza del campesinado nórdico.
La ruptura entre Himmler y Darré respondió, además, a dos concepciones muy distintas sobre el alma de la raza germánica, que para el primero era, sin duda, la figura del guerrero nórdico conquistador (krieger) y, para el segundo, el campesino nórdico colonizador (bauer), que Hitler sintetizaría en su doctrina racial del espacio vital: soldados para conquistar y campesinos para cultivar. Y a estas dos cosmovisiones tan dispares se había llegado mediante una reinterpretación de la historia de los germanos: Darré rechazaba, por ejemplo, que la institución más característica del medievo germánico, el régimen feudal, fuera de tradición nórdica, porque era propia de unos francos carolingios, romanizados y cristianizados, frente a los cuales se situaban sus enemigos y paganos sajones, que sí representaban los auténticos sentimientos nórdicos de libertad personal y fidelidad a la tierra. La raza nórdica no era pues la del guerrero conquistador o del aventurero nómada, sino una raza de campesinos –armados, desde luego, cuando se presentaba la ocasión para el combate- dirigidos por una nobleza electa extraída de sus mismas fuentes agrarias. La contradicción ideológica interna del marxismo obrero, que triunfó en un país desindustrializado como Rusia, se reproducía inversamente en el nacionalsocialismo de inspiración campesina que se había impuesto en un país urbano e industrial como Alemania.
El romanticismo alemán construyó una imagen idealizada de los antiguos germanos, que basculaba entre el guerrero libre y el agricultor, como una especie de campesino-soldado (wehrbauer), arraigado en la tierra, dispuesto sólo a coger las armas para defender su solar o emprender la búsqueda de otros nuevos que cultivar. Esta tesis se separaba de otras visiones que hacían de los germanos unas tribus nómadas tremendamente belicosas, contraponiendo además la figura del germano pegado a su tierra, libre de contaminación física y espiritual, frente a la tradición urbana de la decadente civilización romana, a la moral parasitaria del judío o al nomadismo depredador de eslavos y mongoles. De esta manera, se producía una comunión mística entre la sangre y la tierra que, en un mundo rural idílico, debía ser el instrumento fundamental de purificación y conservación de la raza nórdica. Aunque el modelo campesino de Darré estaba diseñado para una “renordización interna” de la propia Alemania, tanto Hitler como Himmler pensaban implementarlo en la colonización y consiguiente “nordización” (aufnordung) de los territorios conquistados a los eslavos, como ya había sucedido en otras épocas anteriores gracias al ímpetu aniquilador y colonizador de la orden teutónica.
Evola constataba cómo el campesinado de Europa central había conservado una cierta dignidad que lo volvía diferente del de países meridionales y orientales. Darré veía en el campesino alemán fiel a su tierra la fuente de fuerzas más sana de la sangre, de la raza, del volk, una tradición que fundamentaba en las antiguas civilizaciones indoeuropeas. Ya S.H. Riehl había visto en el campesinado a la única capa social, junto a la nobleza terrateniente (Junkers), los únicos sustratos que no se encontraban desarraigados: sobre estas premisas fue forjándose la consigna según la cual “la tierra libera del dinero”, representándola con el clásico esquema del viejo campesino amante de su tierra pero endeudado con el prestamista enamorado de la usura. Por eso, Darré se ocupó de proponer medidas para evitar el éxodo urbano y el desarraigo del campesino, protegiendo no sólo las tierras contra la especulación, sino también contra el endeudamiento, mediante la institución llamada Hegehof: una propiedad hereditaria inalienable (Erbhof), transmisible al heredero más cualificado en el trabajo de la tierra, y que se conservaría a través de las generaciones por “la herencia del linaje en las manos de campesinos libres”.
Sangre y suelo, raza y tierra, son pues las dos coordenadas nucleares de la ideología campesina de Darré. La raza nórdica podía conservar su primacía sobre las demás por razón de la pureza de su sangre, debiendo para ello retornar a los principios sobre la tierra, el matrimonio y la familia que habían regido las antiguas tribus germánicas. «Para el germano, el suelo y la tierra son un miembro constitutivo más de la unidad del grupo familiar». El asentamiento en las tierras de los antepasados y las uniones entre individuos arraigados en las mismas garantizaba la integridad biológica, previniendo además la contaminación de sangre foránea procedente de otras razas, por cuanto éstas no se encuentran unidas por la herencia al solar patrio. La familia nórdica, cuya existencia estaría garantizada por una unidad agrícola suficiente, sería capaz de producir niños racialmente puros, garantizando el futuro de la raza. El ideal agrario de Darré identificaba al campesino con el noble, afirmando que en el origen de los pueblos germánicos no había distinción entre uno y otro, puesto que la “nobleza de la sangre” había sido aquélla que podía demostrar su más antiguo arraigo a las tierras nórdicas, pero el cristianismo, el igualitarismo afrancesado y el marxismo corrompieron el viejo ideal alemán de nobleza y mutaron las ancestrales leyes de la herencia promoviendo el reparto indiscriminado de la tierra y fomentando las uniones entre individuos de distintos linajes raciales.
La selección del campesinado nórdico.
Para Darré la verdadera noción de nobleza, en sentido germánico, debe caracterizarse por una selección de sus dirigentes sobre la base de “núcleos hereditarios seleccionados”. Darré advertirá que «si queremos organizar la nueva nobleza alemana de acuerdo con la concepción germánica, debemos procurar que nuestra actual nobleza no-germánica desde la Edad Media vuelva a los principios de la nobleza de los antiguos germanos, basada en los valores intrínsecos. Hay que proporcionarle los medios para conservar por herencia la sangre que ha demostrado su valía, para eliminar la sangre de calidad inferior y permitirle apropiarse, en caso de necesidad, de los nuevos caracteres de valor que surjan del pueblo». Para conservar esta unidad sanguínea «hay que fundamentarla en una materialidad nutricia: así, la propiedad del suelo es fundamento obligatorio de la familia germánica», porque el progreso de la civilización se perpetúa cuando los mejores se hacen cargo del cuidado de la tierra. En definitiva, «la tierra, para el pueblo alemán, es tanto una base sana para el mantenimiento y la renovación de su sangre, como un medio para alimentarse».
Para Günther, que se adhirió a la “tesis campesina” de Darré, «la nobleza germánica, al igual que toda nobleza indogermánica, ha tenido originariamente una base biológica, y la igualdad del linaje ha significado, alguna vez en los tiempos primigenios de estos pueblos, tanto como idéntico nivel de capacidad hereditaria e igual preeminencia de las características de la raza nórdica». De esta forma, un Estado de cuño germánico dependería de la existencia de una “nobleza de nacimiento”, de una capa dirigente de familias de “alto valor hereditario” que –según Günther- sólo puede lograrse recuperando los valores biológicos y anímicos de los antepasados de raza nórdica y garantizando su transmisión y perpetuación en las generaciones venideras.
Sin embargo, Darré considera que no podía crearse una nobleza de sangre, una aristocracia racial, sino por aplicación de la idea de selección a la reproducción humana, mediante la utilización de los conocimientos sobre la herencia, llegando a afirmar que la palabra “raza” (rasse) no debía aplicarse a los alemanes, debiendo usar el concepto de “especie” (art) –Darré hacía descender a los nórdicos de una especie divina-, si bien reconoce que “raza” había pasado a convertirse en una unidad de apreciación del hombre desde el punto de vista étnico. «Es solamente con todos los medios posibles que podrá conseguirse que la sangre creativa en el cuerpo de la nación, la sangre de los hombres de raza nórdica, sea mantenida e incrementada». Pero la cuestión no era, para Darré, aumentar indiscriminadamente el número de niños alemanes, sino de garantizar la pureza biológica de sus progenitores. Y por ello, la mujer se convertía en el centro de la supervivencia de la familia, debiendo ser consciente de que su misión consistía en la conservación, fomento y multiplicación de individuos raciales sanos, si bien con el apoyo material y espiritual del Estado y de la propia comunidad popular.
Por su parte, el hombre nórdico debía ser aleccionado sobre la forma de elegir a las mujeres para procrear, no sólo desde un punto de vista sexual, sino predominantemente racial: se crearían para ello oficinas de selección de las mujeres óptimas para tener hijos, separando a las que debían ser esterilizadas, y procurando, al mismo tiempo, que cada hombre pudiera tener descendencia con varias mujeres sin sufrir ningún reproche moral, pues la inmoralidad estaba en las relaciones con hembras de otras razas. «Desde el punto de vista de la selección –escribía Darré- nuestro pueblo debe primero clasificar a sus hombres según sus capacidades, pero debe exigirles escoger como esposas, dentro de lo posible, según su coeficiente de selección nórdica». Darré rechazaba el “espiritualismo racial” de Clauss o el posicionamiento de Günther relativo a una definición de lo nórdico más allá de lo puramente antropológico, pues consideraba que en la elección de una mujer no debe subestimarse la importancia racial de las cualidades corporales: «la selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces y así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera, cuyo efecto resulta incalculable sobre la herencia sanguínea de la descendencia y del pueblo».
Para ello, Darré proponía una selección biológica de las ciudadanas alemanas aptas para fecundar: la primera clase comprendería a las mujeres cuyo matrimonio era deseable para la comunidad desde todos los puntos de vista, raciales y morales; la segunda clase incluía al resto de mujeres sin objeciones desde un punto de vista racial, con independencia de valoraciones morales; la tercera clase englobaría a aquellas mujeres irreprochables moralmente pero con taras hereditarias, a las que sólo podría permitirse el matrimonio en caso de previa esterilización; y la última comprendería a aquellas mujeres cuyo matrimonio debía impedirse tanto por motivos físicos como éticos, por no adecuarse a la naturaleza biopsíquica de la raza nórdica. En definitiva, la ecología genética de Darré pretendía cultivar alemanes campesinos desde la biología, pero no desde la sociología de las costumbres y de las tradiciones.

samedi, 16 octobre 2010

Cyrpus in World War II

Cyprus in World War II: Politics and Conflict in the Eastern Mediterranean

Anastasia Yiangou (author)

World War II marked a pivotal point in the history of Cyprus, yet surprisingly, this period of the island's history has been little studied to date. Anastasia Yiangou here provides the first major study of the impact of World War II on the political development of Cyprus. In doing so, she traces shifting Cypriot attitudes to the war and the formation of a triangular conflict in the island between the Left, Right and British colonial power. She explains how the British and Cypriots fought a war alongside each other, yet remained far apart in discussions on the future of the island. Yiangou's original and compelling analysis highlights how the post-1945 landscape of Cypriot political struggles was shaped by forces set in motion during the war itself.

Anastasia Yiangou holds a PhD from the Institute of Commonwealth Studies, University of London in 2009. She has taught at the University of Cyprus and the G.C. School of Careers, Cyprus.

Imprint: I.B.Tauris
Publisher: I.B.Tauris & Co Ltd
Series: International Library of Twentieth Century History

Hardback
ISBN: 9781848854369
Publication Date: 30 Sep 2010
Number of Pages: 304
Height: 216
Width: 134

vendredi, 17 septembre 2010

Pétain, De Gaulle: deux figures d'un tragique destin

Pétain, De Gaulle : deux figures d’un tragique destin

Pétain, De Gaulle… Réfléchissons un instant à ces personnages d’une époque lointaine. Et d’abord, quelle étonnante destinée que celle du maréchal Pétain ! Avoir été porté si haut et avoir été jeté si bas ! Dans la longue histoire de la France, d’autres grands personnages furent admirés, mais aucun sans doute n’a été plus aimé avant d’être tant dénigré.

Son malheur fut d’hériter, non seulement d’une défaite à laquelle il n’avait pris aucune part, mais plus encore d’un peuple, jadis grand, qui était tombé effroyablement bas. Pourtant, de ce peuple, jamais il ne désespéra. Le général De Gaulle, dont le destin croisa si souvent le sien, ne nourrissait pas les mêmes espérances, sinon les mêmes illusions. « J’ai bluffé. confiera-t-il vers 1950 à Georges Pompidou, mais la 1 ère armée, c’était des nègres et des Africains (il voulait dire des « pieds-noirs »). La division Leclerc a eu 2 500 engagés à Paris. En réalité, j’ai sauvé la face, mais la France ne suivait pas. Qu’ils crèvent ! C’est le fond de mon âme que je vous livre : tout est perdu. La France est finie. J’aurai écrit la dernière page. » (1)

Cela, même aux pires moments, Pétain eût été incapable de le penser.

Il était né en 1856 dans une famille de paysans picards, sous le règne de Napoléon III, avant l’automobile et avant l’électricité. Trois fois, il connut l’invasion de sa patrie, en 1870, en 1914 et en 1940. La première fois, il était adolescent et son rêve de revanche fit de lui un soldat.

En 1914, il avait 58 ans. Son indépendance d’esprit l’avait écarté des étoiles. Simple colonel, il se préparait à la retraite. L’assassinat à Sarajevo d’un archiduc autrichien et l’embrasement de l’Europe en décidèrent autrement. L’épreuve, soudain, le révéla. Quatre ans plus tard, il commandait en chef les armées françaises victorieuses de 1918 et recevait le bâton de maréchal de France. De tous les grands chefs de cette guerre atroce, il fut le seul à être aimé des soldats. Contrairement à tant de ses pairs, il ne voyait pas dans les hommes un matériel consommable. Le vainqueur de Verdun était l’un des rares à comprendre qu’il ne servait à rien d’être victorieux si le pays était saigné à mort.

Il y a bien des explications à la défaite de 1940, mais pour le vieux Maréchal, l’une des causes premières se trouvait dans l’effroyable saignée de 14-18. L’holocauste d’un million et demi d’hommes jeunes avait tué l’énergie de tout un peuple.
La première urgence était donc de maintenir ce peuple autant que possible à l’abri d’une nouvelle tuerie. Simultanément, Pétain espérait une future renaissance d’une « révolution nationale ». On l’en a blâmé. Certes, tout pouvait être hypothéqué par l’Occupation. En réalité, il n’avait pas le choix. La « révolution nationale » ne fut pas préalablement pensée. Avec toutes ses équivoques, elle surgit spontanément comme un remède nécessaire aux maux du régime précédent.

Aujourd’hui, dans la sécurité et le confort d’une société en paix, il est facile de porter sur les hommes de ce temps-là des jugements définitifs. Mais cette époque brutale et sans pitié ne pouvait se satisfaire de pétitions morales. Elle exigeait à chaque instant des décisions aux conséquences cruelles qui pouvaient se traduire, comme souvent en temps de guerre, par des vies sacrifiées pour en sauver d’autres.

À Cangé, en conseil des ministres, le 13 juin 1940, ayant pris la mesure exacte du désastre, le maréchal Pétain, de sa voix cassée, traça la ligne de conduite qui allait être la sienne jusqu’au bout, en 1944 : « Je déclare en ce qui me concerne que, hors du gouvernement, s’il le faut, je me refuserai à quitter le sol métropolitain. Je resterai parmi le peuple français pour partager ses peines et ses misères. »

Pour qui n’assumait pas de responsabilité gouvernementale, il était loisible de prendre un autre parti et de relever symboliquement le défi des armes. Et il est salubre que quelques audacieux aient fait ce choix. Mais en quoi cela retire-t-il de la noblesse à la sacrificielle résolution du maréchal Pétain ?

Les adversaires du général De Gaulle ont tenté de minimiser la portée et la hauteur de son propre geste, l’appel à une résistance ouverte. Ils ont fait valoir que l’ancien protégé du Maréchal ne s’était pas embarqué dans l’aventure sans parachute. Ils ajoutent qu’affronter les Allemands, depuis Londres, derrière un micro, était moins périlleux que de le faire en France même, dans un face à face dramatique, inégal et quotidien. Peut-être. Mais, parachute ou pas, le choix rebelle du Général était d’une rare audace. Fruit d’une ambition effrénée, ripostent ses détracteurs. Sans doute. Mais que fait-on sans ambition ?

Ce type d’ambition, cependant, faisait défaut au maréchal Pétain. A 84 ans, avec le passé qui était le sien, il n’avait plus rien à prouver et tout à perdre.

Si notre époque était moins intoxiquée de basse politique et de louches rancunes, il y a longtemps que l’on aurait célébré la complémentarité de deux hommes qui ont racheté, chacun à leur façon, ce qu’il y eut de petit, de vil et d’abject en ce temps-là.

Dominique Venner

Notes:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité, Flammarion, 1982, p 128

Source : DominiqueVenner.fr

La "Nouvelle revue d'histoire" est disponible en kiosque!

vendredi, 06 août 2010

Prussien par élection

Prussien par élection

 

Hommage à Hans-Joachim Schoeps, à l’occasion du trentième anniversaire de sa disparition

 

656.jpg« On n’est pas Prussien par le sang, on le devient par un acte de foi ». Cette phrase est due à la plume du philosophe juif et de l’explorateur des religions Hans-Joachim Schoeps. Le 8 juillet 2010, il y avait juste trente ans qu’il avait quitté ce monde. Inutile de préciser que la maxime mise en exergue de ce texte le concernait personnellement : Schoeps s’affirmait Prussien.

 

Après la seconde guerre mondiale, à une époque où le peuple allemand entamait le long processus qui consistait à se nier soi-même, Schoeps s’est dressé et a commencé à militer pour le droit de l’Allemagne à la vie. Il savait comment son engagement allait être perçu et il l’a dit de manière très pertinente : « Les pierres angulaires de ma vie, être tout à la foi conservateur, prussien et juif, font bien évidemment l’effet d’une provocation chez les fils rouges de pères bruns ». Les insultes n’ont pas manqué de fuser : Wolf Biermann, compositeur juif de chansons d’inspiration communiste, s’est immédiatement laissé aller en étiquetant Schoeps de « Juif à la Heil Hitler ». Cette insulte était bien entendu une aberration telle qu’elle n’a jamais eu d’équivalent. De fait, Schoeps, qui a enseigné jusqu’en 1938 au Gymnasium juif de Vienne, n’avait pas eu d’autre alternative, après la terrible « Nuit de Cristal » d’emprunter le chemin de l’exil. Il s’est rendu en Suède. Son père, le Dr. Julius Schoeps, colonel médecin militaire attaché à l’état-major, et d’après le très officiel « Biographisches Handbuch der deutschsprachigen Emigration » (« Manuel biographique de l’émigration germanophone ») , un « nationaliste allemand », est mort en 1942 dans le camp-ghetto de Theresienstadt.

 

Le rêve de l’unité allemande

 

Hans-Joachim Schoeps est né en 1909 à Berlin. Il était sentimentalement et profondément lié à la capitale allemande et le resta jusqu’à la fin de ses jours. Il n’a malheureusement pas pu vivre la chute du Mur et la réunification du pays. Dans les souvenirs qu’il nous a laissés, il écrit : « ah, que j’aimerais encore une fois au moins me promener dans les rues de Potsdam et entendre le son des vieilles cloches de l’église de la garnison ou me retrouver sur les murailles de Marienburg pour voir y flotter l’aigle noir et le drapeau avec nos deux couleurs, le drapeau sous lequel ont combattu les Chevaliers de l’Ordre pour gagner la Prusse au Reich ».

 

Pendant la République de Weimar, Schoeps a fréquenté les nationaux-allemands, les mouvements de jeunesse « bündisch » (liguistes), liés à  la tradition des Wandervögel, mais en s’intéressant à la politique et animés par une volonté de forger une société et un Etat nouveaux. En 1932, une année après avoir obtenu son doctorat en philosophie, thèse qui portait sur « l’histoire de la philosophie religieuse juive à l’époque moderne », Schoeps fonde le « Deutscher Vortrupp – Gefolgschaft deutsche Juden » (« Avant-garde des éclaireurs allemands – Leudes juifs allemands »), pour offrir un espace d’activité et de survie aux Juifs allemands patriotes, leur donnant simultanément la possibilité d’agir pour forger un ordre nouveau. L’entreprise fut un échec car ni les antisémites de la NSDAP ni les sionistes ne voulaient voir se constituer un tel mouvement.

 

En 1946, Schoeps revient de Suède et se fixe à nouveau en Allemagne. Il a l’honneur de refuser catégoriquement l’offre que lui fit immédiatement l’occupant américain : travailler dans un journal sous licence pour participer à la rééducation du peuple. « Je ne veut pas devenir un Quisling des Américains », déclara-t-il à la suite de son refus hautain. En 1947, il obtient un nouveau titre de docteur à l’Université de Marbourg et, à partir de 1950, il enseigne l’histoire des religions et des idées à l’Université d’Erlangen. Dans le cadre de ses activités universitaires, il s’est toujours dressé contre les accusations collectives que l’idéologie nouvelle, anti-allemande, ne cessait de formuler. Schoeps s’engage aussi pour réhabiliter l’histoire prussienne, continuellement diffamée. Dès 1951, il réclame la reconstitution de la Prusse, que le Conseil de Contrôle interallié avait dissoute en 1947.

 

Après la guerre, il n’a jamais cessé non plus de parler au nom de la communauté juive d’Allemagne. Il refusait de s’identifier aux idéologues du sionisme et n’a jamais voulu se rendre dans le nouvel Etat d’Israël.

 

(article paru dans DNZ, n°28/juillet 2010).

   

jeudi, 08 juillet 2010

Chi ha provocato la II guerra mondiale?

richardcliff.jpgChi ha provocato la II guerra mondiale?

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

Questa domanda se la poneva lo storico Romolo Gobbi nel lontano 1995. E in un suo libro importante, ma debitamente ignorato dai mass-media di allora e di oggi, rispondeva: «Dunque la guerra scoppiò per una serie di errori e non per la malvagità di Hitler». Poi chiamò in causa il celebre storico inglese A. J. P. Taylor, che fin dal 1961 aveva rotto il ghiaccio, facendo con parecchio anticipo un revisionismo radicale e spostando le responsabilità dalla Germania alla Francia e all’Inghilterra, prima, e a USA e URSS, poi. Cosa “revisionava” in concreto Taylor? Semplicemente faceva vedere quanto strumentali e di comodo fossero le attribuzioni a Hitler di tutte le responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ricordava che le vere istigatrici furono in realtà le “democrazie” occidentali; sottolineava che, a guerra vinta in Polonia e sul fronte occidentale, Hitler offrì svariate volte una pace equilibrata agli Alleati, addirittura garantendo la conservazione dei loro imperi coloniali, ma che questi rifiutarono, dando quindi corso alla carneficina degli anni seguenti. Taylor scrisse che «certo, la fuga nell’irrazionalità è più facile. La colpa della guerra si può attribuire al nichilismo di Hitler anziché alle deficienze e agli errori degli statisti europei…».

 

Le prove che Hitler nel 1939 non voleva la guerra sono sempre state conosciute. Solo che, a parte pochi studiosi “eroici”, nessuno le hai mai considerate. Come numerose sono le prove che a volerla furono i franco-inglesi. La divulgazione di massa, sotto la spinta di interessi di bottega, ha imposto un altro dogma, utile a garantire la coscienza pulita a chi invece aveva lungamente tramato: tutta la colpa al Terzo Reich e al pazzo fanatico di Berlino, questo l’ordine di scuderia: e al diavolo i documenti. Tanto a scrivere la storia sono sempre i vincitori e a difendere Hitler non ci penserà certo nessuno.

 

Senza volerlo, ci pensò invece Taylor, storico perfettamente democratico, che non aveva una sua tesi preconcetta da dimostrare per forza, non doveva difendere nessuno, non andava in cerca di scuse per accusare a vanvera questo o quello. Scriveva solo pagine di storia. E raggiunse le sue conclusioni soltanto attingendo dalla documentazione esistente. Senza forzature. E affermò che «Hitler era lungi dal preparare una grande guerra» a Occidente. E che…incredibile! non la voleva neppure contro la Polonia: «La distruzione della Polonia non faceva parte del suo progetto originario; al contrario, egli aveva desiderato risolvere la questione di Danzica in modo tale che i rapporti tra Germania e Polonia restassero buoni».

 

Solo dopo la garanzia della Gran Bretagna alla Polonia, dell’estate 1939, concepita appositamente come provocazione, Hitler si irrigidì e si decise a distruggere la Polonia. Che era uno Stato semi-fascista e accesamente antisemita, ricordiamolo, che in quanto a persecuzione degli Ebrei non aveva proprio nulla da imparare dalla Germania nazista, ma di cui gli Alleati si presero improvvisamente a cuore la causa, dopo aver lasciato a Hitler la Cecoslovacchia, che al contrario era uno dei pochi Stati europei dell’epoca a regime parlamentare e liberal-democratico. L’ipocrisia degli Alleati, di presentarsi come i difensori della “democrazia”, a questo punto appare in tutto il suo volto grottesco.

 

Una delle prove che la Germania non voleva una guerra allargata, ma al massimo gestire un conflitto locale, sta nel fatto che, dopo la campagna a Est del ’39, l’esercito tedesco rimase privo di riserve, e pressoché completamente scoperto a Ovest. Avesse voluto un regolamento dei conti con gli Alleati, Hitler in quel momento avrebbe mobilitato ben altrimenti la sua macchina da guerra. Queste le considerazioni di Taylor. Prontamente occultate dai padroni del pensiero.

 

Gobbi, nel suo libro, rinforzava il tutto asserendo che Hitler verso il suo nemico fu artefice di un gesto di cavalleria più unico che raro nella storia mondiale. Aveva a portata di mano la più facile e schiacciante delle vittorie, ma si astenne dal coglierla per esclusivi motivi politici, cioè per non umiliare il Regno Unito e ben predisporlo alla pace. Quando nel giugno ’40 arrestò i Panzer davanti a Dunkerque, dove centinaia di migliaia di inglesi in fuga si ammassavano per reimbarcarsi, si può dire col senno di poi che Hitler commise il suo più grande errore militare, ma lo commise per troppa generosità e per motivi di conciliazione politica: «Dunque l’aver lasciato fuggire i soldati inglesi da Dunkerque – scriveva Gobbi – non era un errore, ma una mossa per facilitare le trattative di pace…Ma da parte dell’Inghilterra giunse dopo un’ora un “no!” reciso…». È del resto noto che Churchill proibì alla radio inglese la diffusione dei vari messaggi di pace che Hitler lanciò uno dopo l’altro nel ‘40, per evitare che si formasse un’opinione pubblica favorevole alla pace…

 

Ma Gobbi, nel suo esplosivo libretto, affermò anche molte altre cose. Ad esempio, che l’Europa del Nuovo Ordine Europeo non era affatto un inferno, ma un progetto politico seguito dalle masse: «Nella mitologia antifascista tutti questi paesi risultavano oppressi dal “tallone d’acciaio” del nazi-fascismo, ma la realtà sconvolgente è che in tutta l’Europa vi era un consenso diffuso al fascismo, compresa la libera Svizzera». Frasi pesanti. Ma Gobbi andava oltre. Ricordò che la guerra nel Pacifico e nel Sud-Est asiatico venne subdolamente provocata da Roosevelt e dal suo entourage in lunghi mesi di studiata provocazione del Giappone: l’embargo al Sol Levante cui furono costrette le Indie Olandesi e i possedimenti inglesi mise in ginocchio il Giappone, lo esasperò, spingendolo a gesti disperati per sopravvivere. Proprio quello che si voleva a Londra, ma soprattutto a Washington, dove si cercava da un pezzo qualcosa che rimuovesse lo sgradito isolazionismo americano: «Anche in questo caso dunque la scelta della guerra venne fatta non da chi è tradizionalmente considerato l’aggressore e cioè il Giappone, ma da chi lo costrinse deliberatamente a farla».

 

L’attacco di Pearl Harbor, in cui morirono migliaia di marinai americani, fu la bella notizia che Roosevelt e i suoi amici armatori e industriali aspettavano. Di passata, Gobbi ricordava che la storiografia del dopoguerra – ad esempio R. E. Sherwood, sin dal ’49 – non aveva mancato di notare che Roosevelt era circondato «dalla “cricca nefasta” dei suoi stretti collaboratori composta dal giudice Felix Frankfurter, Samuel I. Rosenman e David K. Niles…tutti e tre ebrei…». Comunque sia, l’America ebbe la sua guerra e…«finalmente il ristagno dell’economia che il New Deal non era riuscito a eliminare venne completamente superato…».

 

Gobbi – che ricordiamo è storico di accesa sinistra – nel suo libro lamentava che il suo testo fosse stato rifiutato con imbarazzo da numerose case editrici, e che alla fine dovette accontentarsi di farlo pubblicare dalla piccola ma prestigiosa editrice Muzzio di Padova. C’è da capirlo. Questioni come queste, “revisionismi” come questo, sono intollerabili per chi gestisce l’opinione pubblica e dirige il conformismo a senso unico. E non tutti hanno il coraggio di perseguire la verità, specie se sgradita.

 

Oggi apriamo un altro piccolo libro, Le origini della seconda guerra mondiale di Richard Overy (il Mulino), e vi troviamo pari pari le medesime affermazioni di Gobbi. A mezza bocca, con qualche reticenza opportunistica, ma insomma la verità esce fuori: «La causa della seconda guerra mondiale non fu semplicemente Hitler: la guerra fu provocata dall’interazione tra fattori specifici»…che in soldoni riguardano il declino economico del capitalismo delle “democrazie” occidentali e il loro urgente bisogno di uscirne attraverso una guerra di proporzioni mondiali.

 

Overy, di cui in questo periodo è uscito anche Sull’orlo del precipizio. 1939. I dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra (Feltrinelli), non è neppure lui un bieco fascista alla ricerca di notorietà. È uno storico “democratico” più onesto di tanti altri e meno disposto di loro ad occultare le evidenze documentali. Emilio Gentile, su Il Sole-24 Ore del 25 ottobre scorso, recensendo i due libri di Overy, ha ammesso a sua volta, a proposito del Führer, che «non è tuttavia provato che egli volesse deliberatamente scatenare, proprio in quel momento, una guerra europea o addirittura mondiale». E allora? Non era il pazzo che voleva dominare il mondo? Il gioco delle “grandi democrazie” viene scoperto in tutta la sua doppiezza e improntitudine da Overy, quando ricorda che Gran Bretagna e America, imperi mondiali, accusavano paradossalmente la Germania, tutto sommato piccola nazione centro-europea del tutto priva di colonie e possedimenti, di volersi appunto impadronire niente meno che del mondo. Secondo una retorica falsificatoria che ancora oggi, come tutti sanno, ha un larghissimo corso. Le classi dirigenti anglosassoni temevano una crescita della Germania e del Giappone e, nel suo piccolo, anche dell’Italia. Non perdonarono a quei Paesi di fare una politica libera. Dovevano fare una politica inglese. La classe dirigente “democratica”, di fronte alla crisi economica, preferì fare la guerra piuttosto che ridistribuire il potere mondiale con i nuovi arrivati: «Questa classe dirigente si arrogò il ruolo di giudicare gli interessi nazionali; anziché affrontare la realtà del declino, che era stato la prima causa della crisi, essa scelse una strategia di deterrenza e contenimento, e infine la guerra stessa». Viene allora da chiedersi: in tutto questo la Germania, l’Italia e il Giappone, nazioni emergenti che semmai avevano problemi di crescita e certo non di declino economico, che c’entravano?

 

Oltre a questo, per concludere un argomento tanto vasto nel breve spazio di un articolo, non possiamo non ricordare il recente libro del russo Constantine Pleshakov Il silenzio di Stalin (Corbaccio), in cui si dimostra che l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica del 22 luglio ’41 non fu per nulla il frutto della bramosia hitleriana di conquista, ma una necessità vitale: Stalin aveva intenzione di attaccare di lì a poco, approfittando che la Germania era ancora impegnata contro l’Inghilterra. Stava per questo ammassando truppe alla frontiera e venne anticipato solo di un soffio: di qui il famoso shock emotivo che paralizzò di paura il dittatore georgiano per diversi mesi. Neanche la tanto sbandierata “aggressione” tedesca alla Russia comunista, dato che fu provocata dal comportamento sovietico, sarebbe quindi da ascrivere a Hitler. Il quale pertanto, stando ai risultati di tutti questi storici, non fu colpevole di aver scatenato una guerra mondiale (Overy ricorda tra l’altro che la dichiarazione di guerra la fecero la Francia e l’Inghilterra alla Germania, e non il contrario) e, anche nel caso della guerra a Oriente, come già facevano i Romani al tempo della loro repubblica, il dittatore tedesco si limitò a veder giusto, anticipando il nemico di un minuto, non facendo insomma nulla di diverso di una delle tante, millenarie “guerre preventive” di cui sono piene le pagine di storia.

Luca Leonello RIMBOTTI. 

 

samedi, 03 juillet 2010

"Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu La Rochelle, Ernst Jünger" par Julien Hervier

EJü1195397506.jpg

 

« Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger » par Julien Hervier

 

ex: http://www.polemia.com/

L’auteur et le livre

Ce livre est la réédition revue, corrigée et augmentée d’une postface, d’un texte publié pour la première fois en 1978 et qui était lui-même la version allégée d’une thèse d’État soutenue en Sorbonne. Professeur honoraire de l’université de Poitiers, Julien Hervier est le principal traducteur de Jünger et a dirigé l’édition des Journaux de guerre dans la Pléiade, il a également traduit des ouvrages de Nietzsche, Heidegger et Hermann Hesse, et a édité de nombreux textes de Drieu, notamment son Journal 1939-1945.

Comme le souligne lui-même l’auteur dans sa postface, le contenu de son livre serait bien différent s’il devait l’écrire aujourd’hui, notamment en ce qui concerne Jünger dont l’œuvre a pris une autre ampleur, en particulier avec les cinq volumes du journal de vieillesse Soixante-dix s’efface, jusqu’à sa mort en 1998. Quant à Drieu, il faudrait « insister sur la dimension religieuse de [son] univers » plutôt que de « le réduire à son image de grand séducteur et d’essayiste politique ». Durant les quelque trente ans qui se sont écoulés entre l’édition princeps de cet ouvrage et la présente réédition, le contexte idéologico-politique a profondément changé et ce texte doit donc être lu sans jamais perdre de vue le moment où il fut écrit.

Deux écrivains individualistes et aristocratique : quatre grands thèmes

En 1978 donc, J. Hervier (JH) se propose d’étudier deux écrivains « d’esprit individualiste et aristocratique » qui ont accordé dans leur œuvre « une large place aux problèmes de la philosophie de l’histoire » qu’ils ont « transcrits en termes romanesques ». Son livre se décline selon quatre grands thèmes (la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la Religion), abordés sous différents aspects pour chacun des deux auteurs. 

  • La Guerre - Pour Jünger comme pour Drieu, la guerre est perçue comme une « loi naturelle », et la Première Guerre mondiale est « l’expérience fondamentale de leur jeunesse ». Rappelons seulement quelques titres. Pour le premier : Orages d’acier (1920), La guerre notre mère (1922), Le boqueteau 125 (1925), les journaux de guerre de 1939 à 1948… et cette sentence : « Le combat est toujours quelque chose de saint, un jugement divin entre deux idées ». Pour le second, les poèmes Interrogation (1917) et Fond de cantine (1920), et surtout le roman La comédie de Charleroi (1934). Pour Drieu, les hommes « ne sont nés que pour la guerre »
Jünger considère également la guerre comme « technique » et écrit à cet égard : « La machine représente l’intelligence d’un peuple coulée en acier », tandis que Drieu juge que « la guerre moderne est une révolte maléfique de la matière asservie par l’homme ».
Le livre de Jünger La guerre notre mère illustre parfaitement l’idéologie nationaliste qui régnait alors dans l’Allemagne meurtrie par la défaite, avec son exaltation du sacrifice suprême : mourir pour la patrie. Si, à cette époque, Drieu est sensible à cette idée de sacrifice patriotique, avec la Seconde Guerre mondiale il évoluera du nationalisme au pacifisme.

  • La politique - En matière de politique, les nationalistes que sont initialement Jünger et Drieu estimeront rapidement que le nationalisme est dépassé et qu’il doit évoluer, pour l’un vers l’État universel et pour l’autre vers une Europe unie. Tous deux cependant appellent à une révolution, « conservatrice » pour Jünger et « fasciste » pour Drieu. On connaît les engagements de ces deux intellectuels, mot que Drieu définit ainsi : « Un véritable intellectuel est toujours un partisan, mais toujours un partisan exilé : toujours un homme de foi, mais toujours un hérétique ». Pour l’auteur de Gilles, l’engagement est nécessaire, mais « difficile » et « ambigu ». Pour Jünger, l’engagement est paradoxal : « Ma façon de participer à l’histoire contemporaine, telle que je l’observe en moi, observe-t-il, est celle d’un homme qui se sait engagé malgré lui, moins dans une guerre mondiale que dans une guerre civile à l’échelle mondiale. Je suis par conséquent lié à des conflits tout autres que ceux des États nationaux en lutte ». Une chose est sûre, ces deux intellectuels sont des « spectateurs engagés », mais Jünger « préfère finalement refuser l’engagement – même si un remords latent lui suggère que, malgré tout, en s’établissant dans le supratemporel, il peut réagir sur son environnement politique » (JH), tandis que l’engagement de Drieu « est placé sous le signe du déchirement et de la mauvaise conscience ».

  • L’individu et l’histoire - L’individualisme est une caractéristique essentielle de la personnalité de Drieu (« Je ne peux concevoir la vie que sous une forme individuelle » avoue-t-il en 1921), comme de celle de Jünger pour qui c’est dans l’individu « que siège le véritable tribunal de ce monde ». Mais leur individualisme est à la fois semblable et différent. Le premier, « individualiste forcené » par tempérament et formation, « condamne historiquement l’individualisme comme une survivance du passé, tout en étant incapable d’y échapper dans ses réactions psychologiques personnelles » (JH), le second, individualiste exacerbé également, prononce la même condamnation historique, mais dépasse la contradiction en affirmant, par-delà le constat de la décadence de l’individualisme bourgeois, « la nécessité d’une affirmation individuelle qui fait de chacun le dernier témoin de la liberté » (id.). Devant l’Histoire, Jünger et Drieu ont des attitudes parfois proches et parfois opposées. Jünger la conçoit, à l’instar de Spengler, comme essentiellement cyclique : les civilisations naissent, se développent, déclinent et disparaissent. De fait, il s’oppose aux conceptions de l’Histoire héritées des Lumières comme à celles issues du marxisme. Il envisage cependant « une disparition probable de l’homme historique ». (JH).

DrLaRo060224a.jpg


Drieu est fortement marqué par l’idée de décadence, son « pessimisme hyperbolique et métaphysique » dépasse le « déclinisme » de Spengler, mais, pour lui, il existe un « courant rapide » qui entraîne tout le monde « dans le même sens » et que « rien ne peut arrêter ». Il se rapproche donc, d’une certaine manière de la conception marxiste du « sens de l’histoire », mais va jusqu’à dire que l’Histoire, c’est ce « qu’on appelle aujourd’hui la Providence ou Dieu ».
Dans leurs « utopies romanesques », Jünger (Sur les falaises de marbre, Heliopolis) et Drieu (Beloukia, L’homme à cheval) procèdent de manière radicalement différente : le premier « part de l’histoire présente pour aboutir à l’univers intemporel de l’utopie », tandis que le second « part de l’histoire passée pour aboutir à l’histoire présente » (JH). Tous deux sont déçus par le présent, mais alors que Jünger « lui substitue un monde mythique », Drieu « l’invente dans le passé ».
Face au « problème de la technique », Jünger et Drieu estiment tous deux que celle-ci a détruit l’ancienne civilisation sans lui avoir jamais trouvé de substitut. La solution, selon eux, ne réside pas dans un simple retour en arrière, mais dans la création de quelque chose qu’on n’appellera plus « civilisation » et qui relèvera de « la philosophie, de l’exercice de la connaissance, du culte de la sagesse » (Drieu)

 

  • La religion - Après la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la dernière partie du livre est consacrée au rapport à la religion de Jünger et de Drieu, et c’est sans doute, pour le lecteur qui ne connaît pas l’ensemble de l’œuvre de ces deux auteurs, la plus surprenante. Un long chapitre traite de « la pensée religieuse de Drieu ». Celui-ci, vieillissant, délaissant les femmes, rejetant l’action politique, se tourne de plus en plus vers la religion. Il passe de « l’ordre guerrier » de sa jeunesse à « l’ordre sacerdotal », et écrit, aux abords de la cinquantaine, des « romans théologiques ». Il admire dans le catholicisme « un système de pensée complexe » et une religion qui « représente pour la civilisation d’Europe son arche d’alliance, le coffre de voyage à travers le temps où se serre tout le trésor de son expérience etde sa sagesse ». Toutefois, s’il vénère le christianisme sub specie æternitatis, il déteste ce qu’il est devenu, c'est-à-dire une religion « vidée de sa substance », muséifiée, et qui ne représente plus qu’« une secte alanguie », à l’image du déclin général de l’Occident. L’Église n’est plus qu’une institution bourgeoise liée au grand capitalisme. À ce « catholicisme dégénéré » (JH), Drieu oppose le christianisme « viril » du Moyen Âge, celui du « Christ des cathédrales, le grand dieu blanc et viril ». Ce dieu « n’a rien à céder en virilité et en santé aux dieux de l’Olympe et du Walhalla, tout en étant plus riche qu’eux en secrets subtils, qui lui viennent des dieux de l’Asie ». Pour Drieu, il n’y a pas de véritable antagonisme entre le christianisme et le paganisme, mais seulement une façon différente d’interpréter la Nature. À ses yeux, c’est le catholicisme orthodoxe qui a le mieux conservé l’héritage païen.. Mais, au-delà des différentes religions, païennes ou chrétiennes, Drieu croit profondément en une sorte de syncrétisme universel, celui d’« une religion secrète et profonde qui lie toutes les religions entre elles et qui n’en fait qu’une seule expression de l’Homme unique et partout le même ».
Pour Jünger comme pour Drieu, la dimension religieuse est fondamentale et « transcende toutes les autres » (JH). Mais, contrairement à Drieu, le mot même de « Dieu » est peu fréquent dans son œuvre, caractérisée pourtant par une vision spiritualiste du monde. De fait, il semble qu’il ait envisagé une « nouvelle théologie », sans lien véritable avec l’idée d’un Dieu personnel, relevant plus sûrement d’une « religion universelle », au sens où il parle d’« État universel ». L’ennemi commun des nouveaux théologiens comme des Églises traditionnelles demeure, en tout état de cause, le « nihilisme athée ». La sympathie générale qu’il éprouve pour toutes les religions relève davantage de sa philosophie de l’histoire que d’un véritable sentiment religieux, mais ne l’empêchera pas, tout au long de la Seconde Guerre mondiale, d’exprimer des préoccupations chrétiennes. Son journal de guerre comprend d’innombrables références à la Bible, dont il loue le « prodigieux pouvoir symbolique », tandis que Sur les falaises de marbre et Heliopolis mettent en scène deux importantes figures de prêtres. « Au temps de la plus forte douleur, écrit-il, le christianisme « peut seul donner vie au temple de l’invisible que tentent de reconstruire les sages et les poètes ». Pour lui, le christianisme est avant tout ce qui, dans notre civilisation, « incarne les valeurs religieuses permanentes de l’humanité » (JH). À ses yeux, le christianisme constitue un humanisme qui prône une haute conception de l’homme. Il n’en accepte pas moins le « Dieu est mort » nietzschéen qui, souligne-t-il, est « la donnée fondamentale de la catastrophe universelle, mais aussi la condition préalable au prodigieux déploiement de puissance de l’homme qui commence ». La mort de Dieu n’est pour lui que la mort des dieux personnels, elle n’est donc pas un obstacle à la dimension religieuse de l’homme. Au mot de Nietzsche, il préfère celui de Léon Bloy, « Dieu se retire », ce qui annonce l’avènement du Troisième Règne, celui de l’Esprit qui succèdera à ceux du Père et du Fils.
En matière de religion, Drieu et Jünger sont « étrangement proches et profondément différents » (JH). Tous deux défendent les religions contre le rationalisme tout-puissant, sont convaincus de l’évidence de la mort du Dieu personnel et donc de la nécessité de « reconstruire à partir d’elle une nouvelle forme d’appréhension du divin » (JH).

Un mélange détonnant

Ce qui ressort de cette étude comparative de Jünger et Drieu, « c’est le mélange détonnant qui se produit en eux entre un esprit réactionnaire incontestable et une volonté révolutionnaire ». Toutefois si Jünger est plutôt un national-bolchevique et Drieu un révolutionnaire fasciste, face au « bourgeoisisme » tous deux sont des révolutionnaires.

Julie Hervier a intitulé son travail : « Deux individus contre l’histoire ». Le mot « individu » prend ici tout son sens lorsqu’on comprend, après avoir refermé le livre, que Jünger et Drieu sont fascinés par la singularité de l’individu. Jünger incarne un individualisme métaphysique qui est le contraire de l’individualisme bourgeois que Drieu, dans sa mauvaise conscience, croit représenter. Tous deux aspirent à l’avènement d’une nouvelle aristocratie, mais pour Drieu il s’agit d’une aspiration essentiellement politique, alors que pour Jünger le but c’est la constitution d’une « petite élite spirituelle ». Dans sa postface, l’auteur de cette magistrale et admirable étude justifie a posteriori son titre de 1978 en rappelant et en se réclamant de la formule de Kafka : « Il n’y a de décisif que l’individu qui se bat à contre-courant ».

Didier Marc
11/06/2010

Julien Hervier, Deux individus contre l’Histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger. Eurédit, 2010, 550 p.

Correspondance Polémia – 22/6/2010

vendredi, 11 juin 2010

Irak 1941: la révolte de Rachid Ali contre les Britanniques

Arab%20Leagion%20Iraq.jpgIrak 1941: la révolte de Rachid Ali contre les Britanniques

 

d'après une étude de Marzio Pisani

 

En 1941, l'Irak, nominalement indé­pendant, était de fait un protectorat bri­tannique. La domination impérialiste an­glaise en Irak se basait sur une pré­sence militaire, sur le conditionnement politique et sur l'exploitation écono­mique. La présence militaire consistait en deux bases aériennes, l'une à Chaï­ba, près de Bassorah au Sud, et l'autre à Habbaniya près de Bagdad. La RAF y entretenait 88 appareils. Une troisième base était en construction à Routbah. Les Anglais avaient permis que se con­stituent une armée et une police ira­kiennes, dotées d'avions. Ces troupes étaient sensées défendre les in­térêts de l'Empire. Elles allaient se ré­véler instru­ments du nationalisme arabe, sans que les Anglais ne s'en aperçoivent à temps. Les Britanniques avaient imposé à leur marionette ira­kienne, le Cheik Abdoul Ila, un traité qui autorisait les troupes anglaises à circuler librement partout sur le terri­toire irakien, inclus d'office dans le Commonwealth. Mais les élé­ments d'élite de la nation irakienne n'ac­ceptaient que très difficilement cette mi­se sous tutelle: la politique pro-arabe de l'Axe les séduisait. Les diplo­mates ita­liens et allemands en poste dans le pays l'infiltrèrent idéologique­ment, é­bran­lant le prestige des Britan­niques dans toute la région.

 

Sur le plan économique, le capitalisme anglo-saxon exploitait sans vergogne les ressources pétrolières du pays par le biais de ses compagnies pétrolières. A la déclaration de guerre, cette arro­gance conduisit les Irakiens à rompre les relations diplomatiques avec l'Alle­magne et l'Italie  —sous pression britan­nique—  tout en refusant de dé­clarer la guerre à l'Axe. De plus, l'Irak offre l'a­sile au Grand Moufti de Jéru­salem, grand propagandiste de la poli­tique ger­mano-italienne en Islam. Le 1er avril 1941, le groupe germanophile dit de la «Place d'Or», rassemblé autour de Ra­chid Ali, prend le pouvoir par un coup d'Etat. L'ensemble des forces ar­mées irakiennes, armée de terre, avia­tion et police, se joint au nouveau ré­gime. Les Anglais réagissent très vite pour re­mettre en place leur marion­nette qui avait fui à l'étranger. Le porte-avions Her­mes se porte dare-dare dans les eaux du Golfe Persique et la 20ième Bri­gade Indienne, accompagnée d'un ré­giment d'artillerie, débarque à Basso­rah. Devant cette violation du territoire irakien, Rachid Ali organise l'insurrec­tion fin avril. Les forces ar­mées ira­kiennes comptaient quatre di­visions d'infanterie, quelques unités mécani­sées à faibles effectifs dispersés dans tout le pays et de 60 avions, des vieux modèles servis par des équipages inex­périmentés.

 

Fin avril, début mai, les Irakiens arrê­tent les sujets britanniques résidant sur leur territoire et dirigent les flux de pétrole vers la Syrie de Vichy. Le 30 avril, ils lancent une attaque contre la ba­se de Habbaniya. La police de Rout­bah verrouille la ville et la population de Bassorah s'insurge contre les Anglo-Indiens et amorcent une guerrilla aux environs de la cité. Surpris, les Anglais doivent contre-attaquer par la Trans­jordanie, appuyés par les chars de la 1ière Division de Cavalerie (la «Hab­for­ce»), la fameuse Légion Arabe et quel­ques unités jordaniennes. Des renforts sont appelés d'Egypte et des Indes. Avec l'appui de la RAF, la Hab­force re­prend Routbah et brise l'encer­cle­ment de Habbaniya. A Al-Fal­loudjia, la ba­tail­le décisive a lieu entre le 19 et le 23 mai: les Irakiens résistent mais sont battus, écrasés par la supé­riorité ma­té­rielle de leurs adversaires.

 

Les forces de l'Axe étaient clouées dans les Balkans et en Afrique du Nord. Le seul appui dont purent bénéficier les Irakiens: une petite escadrille germano-italienne et des approvisionnements fournis par la France de Vichy au dé­part de la Syrie. L'extrême-nord du pays n'est pacifié définitivement que le 9 juin. L'occupation du pays est laissée à deux divisions indiennes: la 8ième au Sud et la 10ième au Nord, tandis qu'u­ne brigade entière (la 24ième) est mo­bilisée pour protéger les lignes de com­munications entre Bassorah et Bagdad, menacées par les partisans irakiens. Ceux-ci ne déposèrent pas les armes de si­tôt. Francs-tireurs et sabo­teurs restè­rent actifs pendant toute la guerre. Les Britanniques durent mettre sur pied une flotille de bâteaux pa­trouilleurs sur les deux grands fleuves. Autre souci pour la 24ième Brigade: la protection des oléoducs.

 

En fin de compte, la révolte irakienne fut un échec. Les Anglais sont restés so­lidement accrochés au Moyen-Orient. Mais les destructions opérées préala­blement par les troupes irakiennes en retraite, pratiquant la politique de la terre brûlée, ont mobilisé les énergies de bon nombre d'unités de génie. Obli­gés de distraire de gros moyens pour mater les Irakiens, les Anglais ont dû dégarnir leurs fronts libyen et malai­sien, permettant à Rommel d'avancer vers l'Egypte et aux Japonais de s'em­parer de Singapour.

 

Les Britanniques, après la départ de Rachid Ali pour Berlin, réinstallent l'an­cien gouvernement et maintiennent le pays en état d'occupation. En 1943, le gouvernement anglophile irakien dé­cla­re la guerre à l'Axe mais sans pou­voir aligner des troupes. Quelques pi­lotes ira­kiens s'engagent dans l'armée de l'air italienne.

 

Marzio PISANI.

(résumé d'un article paru dans L'Uomo Libero, n°16, nov. 1983; adresse de la revue: L'Uomo Libero, Casella postale 14035, I-20140 Milano, Italie). 

 

mercredi, 09 juin 2010

Giovanni Gentile: Fascism's Ideological Mastermind

Mussolini’s ‘Significant Other’

Giovanni Gentile: Fascism’s Ideological Mastermind

 

Ex: http://magnagrece.blogspot.com/


Professore Giovanni Gentile: the “Philosopher of Fascism.”


“Philosophy triumphs easily over past, and over future evils, but present evils triumph over philosophy.” – François de La Rochefoucauld: Maxims, 1665


In writing the history of a country or of an ethnos, all too often even the most well-meaning people are tempted out of patriotism to embellish the truth by either building up the good or omitting certain ‘unsavory’ facts about the past. On an emotional level this is understandable. After all, in a certain sense an ethnic group is a vastly extended family. The country, on the other hand, can be considered a sizable prolongation of the borders of one’s home. Who but the crassest enjoys speaking ill of home and family?


Nevertheless, if one wishes to strive for accuracy and objectivity in their writings, one must inevitably confront the specter of those who, during the course of their lives, engaged in actions that today go against the grain of established social mores. Otherwise, one risks being exposed to the charge of chauvinism (or worse).


It has been the stated purpose of this writer to show the reader how his people, the DueSiciliani, have carved out a place for themselves in this world in spite of the loss of their homeland, the Kingdom of the Two Sicilies, to the forces of the Piedmontese and their allies in 1861. Thus far, I and other like-minded folk posting on this blog have written of the commendable members of our people who have significantly added to Western Civilization through their contributions to the arts, sciences, philosophy (and even sports).


Men like Ettore Majorana, Salvator Rosa, Vincenzo Bellini and “the Nolan”, Giordano Bruno have unquestionably made this world better by being in it.


Similarly, we have written of those whose legacies provoke more ambivalent feelings. Men like Paolo di Avitabile and Michele Pezza, the legendary “Fra Diavolo”, led lives that to this day are considered controversial.


It now falls to this writer the hapless task of telling the tale of one of our own who went down “the road less traveled” to a decidedly darker place in the chapters of history – among the creators of 20th century totalitarian movements. As the reader will soon see, this journey cost him friends, a loftier place in the history books, and eventually his life!


Giovanni Gentile was born in the town of Castelvetrano, Sicily on May 30th, 1875 to Theresa (née Curti) and Giovanni Gentile. Growing up, his grades were so good he earned a scholarship to the University of Pisa in 1893. Originally interested in literature, his soon turned to philosophy, thanks to the influence of Donato Jaja. Jaja in turn had been a student of the Abruzzi neo-Hegelian idealist Bertrando Spaventa (1817-1883). Jaja would “channel” the teachings of Spaventa to Gentile, upon whom they would find a fertile breeding ground.


During his studies he found himself inspired by notable pro-Risorgimento Italian intellectuals such as Giuseppe Mazzini, Antonio Rosmini-Serbati and Vincenzo Gioberti. However, he also found himself drawn to the works of German idealist and materialist philosophers like Johann Gottlieb Fichte, Karl Marx, Friedrich Nietzsche and especially Georg Hegel. He graduated from the University of Pisa with a degree in philosophy in 1897.


He completed his advanced studies at the University of Florence, eventually beginning his teaching career in the lyceum at Campobasso and Naples (1898-1906).


Benedetto Croce

Beginning in 1903, Gentile began an intellectual friendship with another noted philosopher from il sud: Benedetto Croce. The two men would edit the famed Italian literary magazine La critica from 1903-22. In 1906 Gentile was invited to take up the chair in the history of philosophy at the University of Palermo. During his time there he would write two important works: The Theory of Mind as Pure Act (1916) and Logic as Theory of Knowledge (1917). These works formed the basis for his own philosophy which he dubbed “Actual Idealism.”


Giovanni Gentile’s philosophy of Actual Idealism, like Marxism, recognized man as a social animal. Unlike the Marxists, however, who viewed community as a function of class identity, Gentile considered community a function of the culture and history in a nation. Actual Idealism (or Actualism) saw thought as all-embracing, and that no one could actually leave their sphere of thinking or exceed their own thought. This contrasted with the Transcendental Idealism of Kant and the Absolute Idealism of Hegel.


He would remain at the University of Palermo until 1914, when he was invited to the University of Pisa to fill the chair vacated by the death of his dear friend and mentor, Donato Jaja. In 1917, he wound up at the University of Rome, where in 1925 he founded the School of Philosophy. He would remain at the University until shortly before his murder.


After Italy’s humiliating defeat at the disastrous Battle of Caporetto in November, 1917, Gentile took a greater interest in politics. A devoted Nationalist and Liberal; he gathered a group of like-minded friends together and founded a review, National Liberal Politics, to push for political and educational reform.


Gentile’s writings and activism attracted the attention of future Fascist dictator Benito Mussolini. Immediately after his famous “March on Rome” at the end of October, 1922, Mussolini invited Gentile to serve in his cabinet as Minister of Public Instruction. He would hold this position until July, 1924. Surviving records show that on May 31st, 1923 Giovanni Gentile formally applied for membership in the partito nazionale fascista, the National Fascist Party of Italy.


With his new cabinet position Gentile was given full authority by Mussolini to reform the Italian educational system. On November 5th, 1923 he was appointed senator of the realm, a representative in the Upper House of the Italian Parliament. Gentile was now at the pinnacle of his political influence. With the power and prestige granted him by his new office, he began the first serious overhaul of public education in Italy since the Casati Law was passed in 1859.


Gentile saw in Mussolini’s authoritarianism and nationalism a fulfillment of his dream to rejuvenate Italian culture, which he felt was stagnating. Through this he hoped to rejuvenate the Italian “nation” as well. As Minister of Public Instruction Gentile worked laboriously for 20 months to reform what was most certainly an antiquated and backward system. Though successful in his endeavor, ironically, it was the enactment of his plan that caused his political influence to wane.


In spite of this, Mussolini continued to grant honors on him. In 1924, after resigning his post as Minister, “Il Duce” invited him to join the “Commission of Fifteen” and later the “Commission of Eighteen” basically in order to figure out how to make Fascism fit into the Albertine Constitution, the legal document that governed the state of Italy since its formation after the infamous Risorgimento in 1861.


On March 29th, 1925 the Conference of Fascist Culture was held at Bologna, in northern Italy. The précis of this conference was the document: the Manifesto of the Fascist Intellectuals. It was an affirmation of support for the government of Benito Mussolini, throwing a gauntlet down to critics who questioned Mussolini’s commitment to Italian culture. Among its signatories were Giovanni Gentile (who drew up the document), Luigi Pirandello (who wasn’t actually at the conference but publicly supported the document with a letter) and the Neapolitan poet, songwriter and playwright Salvatore Di Giacomo.


It was that last name that provoked a bitter dispute between Gentile and his erstwhile friend and mentor, Benedetto Croce. Responding with a document of his own on May 1st, 1925, the Manifesto of the Anti-Fascist Intellectuals, Croce made public for all to see his irreconcilable split (which had been brewing for some time) with the Fascist Party of Italy…and Giovanni Gentile. In his document he dismissed Gentile’s work as “…a haphazard piece of elementary schoolwork, where doctrinal confusion and poor reasoning abound.” The two men would never collaborate again.


From 1925 till 1944 Gentile served as the scientific director of the Enciclopedia Italiana. In June of 1932 in Volume XIV he published, with Mussolini’s approval (and signature) and over the Roman Catholic Church’s objections, the Dottrina del fascismo (The Doctrine of Fascism). The first part of the Dottrina, written by Gentile, was his reconciling Fascism with his own philosophy of Actual Idealism, thereby forever equating the two.


Giovanni Gentile approved of Italy’s invasion of Ethiopia in 1935. Though he found aspects of Hitler’s Nazism admirable, he disapproved of Mussolini allying Italy with Germany, believing Hitler’s intentions could not be trusted and that Italy would wind up becoming a vassal state. His views on this were shared by General Italo Balbo and Count Galeazzo Ciano, Mussolini’s son-in-law and Foreign Minister. Nevertheless, Gentile continued to support Mussolini. Since he recognized that Italy was a polity but not a nation in the true sense of the word, he believed “Il Duce’s” iron-fisted rule to be the only thing sparing the Italian pseudo-state from civil war.


With the collapse of Italy’s Fascist regime in September, 1943 and Mussolini’s rescue by Hitler’s forces, Gentile joined his emasculated master in exile at the so-called Italian Social Republic; an ad hoc puppet state created by Hitler in an ultimately futile attempt to shore up his rapidly crumbing 1,000-year Reich. Even then, he served as one of the principal intellectual defenders of what was obviously a failed political experiment.


On April 15, 1944 Professore Giovanni Gentile was murdered by Communist partisans led by one Bruno Fanciullacci. Ironically, he was gunned down leaving a meeting where he had argued for the release of a group of anti-Fascist intellectuals whose loyalty was suspect. He was buried in the Church of Santa Croce in Florence where his remains lie, perhaps fittingly, next to those of Florentine philosopher and writer Niccolò Machiavelli.


As one might imagine, after his death Gentile’s name was scorned if not forgotten entirely by historians. In recent years, however, scholars have begun to re-examine his legacy. Political theorist A. James Gregor (née Anthony Gimigliano), a recognized expert on Fascist and Marxist thought and himself an American of Southern Italian descent, believes that Gentile actually exerted a tempering influence on Italian Fascism’s proclivities towards violence as a political tool. This, he argues, is one (of several) of the reasons why Mussolini’s Italy never indulged in the more draconian excesses of Hitler’s regime.


Even his former friend and colleague Benedetto Croce later recognized the superior quality of Gentile’s scholarship and the quantity of his publications in the history of philosophy. Yet he differed sharply from him in political ideology and temperament. While both men forsook any loyalty to i Due Sicilie in favor of the pan-Italian illusion of the Risorgimento, they disagreed mightily as to the nature of the Italian state and to what course it should pursue.


For Gentile the actual idealist, the state was the supreme ethical entity; the individual existing merely to submit and merge his will and reason for being to it. Rebellion against the state in the name of ideals was therefore unjustifiable on any level. To Gentile, Fascism was the natural outgrowth of Actual Idealism.


Croce the neo-Kantian, on the other hand, argued forcefully the state was merely the sum of particular voluntary acts expressed by individuals (who were the center of society) and recorded in its laws. To Croce, Gentile’s metaphysical concepts regarding the state approached mysticism.


Thus, while both men have sadly been largely forgotten, even in the intellectual circles they once traversed, Croce’s legacy survives in a much better light than the man he once called friend.


Niccolò Graffio


Further reading:

  • A. James Gregor: Giovanni Gentile: Philosopher of Fascism; Transaction Publishers, 2001.
  • Giovanni Gentile and A. James Gregor (transl): Origins and Doctrine of Fascism: With Selections from Other Works; Transaction Publishers, 2002.
  • M.E. Moss: Mussolini’s Fascist Philosopher: Giovanni Gentile Reconsidered; Peter Lang Publishing, Inc., 2004.

lundi, 07 juin 2010

Le Bulletin célinien / juin 2010

Le Bulletin célinien n°320 - Juin 2010

Au sommaire:

Marc Laudelout : Bloc-notes
Les ballets lus par Robert Poulet (1959)
Henri Godard : Céline et la danse
M. L. : Céline, auteur de ballets
M. L. : Le petit monde des céliniens
M. L. : « Voyage au bout de la nuit » brûlé par le IIIe Reich ?
Courrier des lecteurs
Céline vu par Giovanni Raboni (2000)
M. L. : Céline chez les fascistes canadiens


Le Bulletin célinien
B. P. 70
B 1000 Bruxelles 22
Belgique

juin 2010

Il y a trois mois, j’ai assisté à un intéressant dialogue entre François Gibault, biographe de Céline, et le psychanalyste Patrick Declerck (1). La divergence de vues portait sur l’humanisme de Céline — attesté pour le premier, réfuté par le second. Coïncidence : durant ce même mois de mars, Pierre Lainé – qui voit, lui aussi, en Céline un humaniste (2) – se voyait contesté par le critique Robert Le Blanc « car un humaniste, ce n’est pas quelqu’un qui fait preuve ici et là de sentiments d’humanité, de fraternité, c’est quelqu’un qui prétend “croire en l’homme” (3) ».
Céline croyait-il en l’homme ? Lui qui écrivait, dans Voyage au bout de la nuit, que « faire confiance aux hommes c’est déjà se faire tuer un peu » ? Henri Godard a raison de voir en Mea culpa « une virulente dénonciation de l’humanisme (4) » à partir de la réalité soviétique. Les propos les plus pessimistes visant l’espèce humaine, c’est bien dans ce libelle qu’on peut les lire. « L’Homme il est humain à peu près autant que la poule vole. » Le paradoxe étant qu’avec tout ce qu’il pense de l’homme, en général, et de ses compatriotes, en particulier, Céline ait tenu à leur sauver la mise par de terribles brûlots ayant essentiellement pour but de prévenir un (nouveau) conflit européen. Or, n’est-ce pas lui qui écrivait : « Il ne faut pas, voyez-vous, s’occuper de l’Homme, jamais. Il n’est rien (5). » ? Dans Les Beaux draps, qui constitue, en dépit des circonstances, son livre le plus roboratif, il propose une complète et profonde rééducation de l’homme passant par une conception nouvelle de la famille et de l’école. Alors même qu’étant donné ce qu’il avait écrit auparavant, il eût pu faire sienne cette conviction nietzschéenne selon laquelle la vie est mauvaise et qu’il ne nous appartient pas de la rendre meilleure.
Au moins, à ce moment précis, Céline appelle-t-il de ses vœux une forme d’épanouissement de l’homme basé sur des réformes radicales. Ce souhait fera long feu. Après les épreuves et l’exil, il n’aura de cesse de se présenter en esthète, fuyant les idées comme la peste et récusant, plus que jamais, le souci de s’intéresser à l’homme plutôt qu’à la chose en soi. Mais, s’il apparaît alors nihiliste, il ne le fut pas toujours.
Alors, était-il un humaniste déçu ? Un anti-humaniste ? Sa passion pour le biologique en fait-il même, comme l’affirment certains, un post-humaniste ? (6) Humaniste ou pas, Céline n’a pas fini de susciter la controverse. Dès lors qu’on aborde son cas, il me semble que sa vocation médicale, sa détestation de la guerre, sa passion pour la création (« Je suis du parti de la vie ») mais aussi, il est vrai, sa défiance farouche envers l’Homme sont autant d’éléments à prendre en compte.

Marc LAUDELOUT


Notes

1. Soirée littéraire consacrée, le 23 mars au Voyage au bout de la nuit à « Passa Porta » (Maison internationale des littératures, Bruxelles). Cette soirée était animée par Laurent Moosen.
2. « L’œuvre célinienne est une œuvre humaniste. Parce qu’elle dénonce les misères et les crimes de tous bords, les cruautés et les exploitations, parce qu’elle s’insurge, dénonce et tonitrue pour les malentendants, condamne les résignations, invite à une prise de conscience, ou plutôt impose cette prise de conscience jusqu’à l’angoisse et la nausée. Céline humaniste, oui, profondément humaniste.» (Pierre Lainé,
Céline, Pardès, 2005). À noter qu’à Dinard, une conseillère municipale de l’opposition s’opposant à la tenue du prochain colloque de la SEC dans cette ville indique qu’« on cherche vainement des bouffées humanistes [sic] » chez Céline. Nous reviendrons sur cette polémique.
3. Robert Le Blanc, « Autour de la correspondance », Le Bulletin célinien, n° 317, mars 2010, p. 9.
4. Henri Godard, « Notice de Guignol’s band » in Romans III, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 1988.
5. Lettre à Pierre Boujut, 7 janvier 1936 in Lettres, Gallimard, coll. « Bibliothèque de la Pléiade », 2009, p. 476.
6. Philippe Destruel, « Céline entre Ariel et Caliban. Les pamphlets : de l’humanisme déçu à l’anti-humanisme amer » in
Médecine (Actes du quinzième Colloque international Louis-Ferdinand Céline), Société d’études céliniennes, 2005.

vendredi, 30 avril 2010

Jean Vermeire est mort...

Wallonie%201_%20Kompanie.jpg

 

Jean Vermeire est mort...

 

 

Réflexions après le décès de Jean Vermeire, un ancien du “Vingtième Siècle”, du “Petit Vingtième” et de la “Légion Wallonie”

 

Ex: http://intansigeants.wordpress.com/

 

Par l’intermédiaire d’un communiqué du groupe “anti-fasciste” “Resistances.be”, la presse belge a appris que Jean Vermeire était décédé dans les Baléares le 21 septembre 2009, des suites d’une attaque cérébrale. Qui était Jean Vermeire? Un ancien journaliste et dessinateur du “Vingtième siècle” (de 1938 à 1940) puis du “Pays réel”; il s’engage dans les rangs de la “Légion Wallonie” et y gagne ses galons de capitaine; condamné à mort puis gracié, il entame une carrière commerciale et industrielle qui lui procure une existence confortable, sans qu’il n’oublie pour autant les soldats de sa Légion, pour qui il créera un service d’entraide ainsi qu’une amicale qui existe toujours.

 

Pour les piètres critères actuels, le communiqué de “Résistances.be” est relativement correct. On a vu pire, sauf qu’il contient, bien entendu, les approximations habituelles et les conclusions hâtives d’individus qui n’ont pas le feeling adéquat pour juger l’histoire et surtout pour appréhender ses complexités (j’y reviens!). Jean Vermeire était l’un des innombrables représentants de cette complexité que notre époque n’est plus capable de mettre en cartes, d’aborder avec sérénité et impartialité. Triste signe des temps: le communiqué des pauvres sycophantes de “Résistances.be” a été repris tel quel, sans le moindre recul critique, sans la moindre tentative d’étoffer l’information, par la presse entière, avec, en tête, “La Libre Belgique” qu’on a connue mieux inspirée.

 

Trop jeune, je n’ai guère connu Jean Vermeire ni a fortiori ses grandes heures de célébrité, et nos relations se sont bornées à une ou deux conversations, notamment dans un café à l’angle de la rue du Haut-Pont et de la rue Franz Merjay (*), et à quelques (longs) coups de téléphone pour demander l’une ou l’autre précision historique. Je m’empresse d’ajouter que ces conversations ont toutes été enrichissantes et m’ont aidé à mieux comprendre les sentiments de nos aînés, ceux qui ont vécu les années 30 et 40.

 

Outre dans un ouvrage de Saint-Loup consacré aux volontaires belges de l’armée allemande, paru en 1975 aux “Presses de la Cité”, j’ai appris l’existence de Jean Vermeire par les émissions de Maurice De Wilde à la BRT (ancêtre de la VRT). Jean Vermeire y avait défendu son point de vue et insisté sur l’extrême jeunesse des protagonistes du rexisme et des volontaires de la Légion Wallonie pendant la deuxième guerre mondiale. Dérapages éventuels ou outrances attestées étaient, affirmait-il devant le micro de De Wilde, à mettre sur le compte d’une juvénilité trop ardente.

 

L’Hôtel des 100.000 briques

 

Personnellement, j’ai connu Jean Vermeire par l’intermédiaire du regretté Jean van der Taelen, qui l’avait connu entre les murailles grises de la prison de Saint-Gilles. Jean Vermeire y croupissait pour son engagement à la “Légion Wallonie”. Jean van der Taelen, qui n’avait eu aucune activité collaborationniste, y avait été jeté pour avoir créé, après septembre 1944, un réseau d’évasion pour proscrits, à commencer par un ami de jeunesse qu’il avait perdu de vue depuis de longues années. Parmi les prisonniers célèbres, que les deux Jean y ont côtoyés, il y avait également Paul Jamain, alias le caricaturiste “Jam” du “Pays réel” et le futur caricaturiste “Alidor” de “Pan”. Paul Jamain avait fait un dessin de Jean van der Taelen, posé en “Saint-Martin” avec une lourde cape rouge sur les épaules parce qu’il s’occupait à Saint-Gilles du service social à ses co-détenus, un Saint-Martin incarcéré injustement à “l’Hôtel des 100.000 briques”, comme “Jam” se plaisait à nommer sa nouvelle résidence forcée (**). L’amitié qui liait nos deux Jean remontait à l’époque de cet embastillement. Ils se voyaient régulièrement, non pas pour comploter contre la démocratie, comme l’allègueront sans doute nos sycophantes obsessionnels, mais tout simplement pour deviser du quotidien. Jean van der Taelen, on le sait, adorait organiser conférences, causeries et autres colloques. Pour lui, il n’y en avait jamais assez. Il multipliait les casquettes, les associations, les clubs pour en organiser plus encore. Un jour, le voilà qu’il invite le professeur Jean Van Welkenhuyzen dans les locaux de l’Hôtel Delta, bien entendu, en même temps que Jean Vermeire.

 

C’est donc après l’exposé, clair et brillant, de Van Welkenhuyzen, que je me suis retrouvé avec un futur assistant de Paul Aron, à cette table de café, à Ixelles, comme je viens de le dire. Jean Vermeire, intarissable, nous a tenu une conférence deux fois plus longue que celle de Van Welkenhuyzen. Face aux événements de la guerre, sans renier ses engagements ou ses motivations juvéniles, Jean Vermeire parlait d’un “gigantesque cafouillage”, qui a affecté les armées nationales-socialistes et soviétiques sur le front russe. L’immensité des steppes russes et ukrainiennes ou des régions marécageuses du Pripet entraînait des problèmes logistiques insurmontables. L’hiver russe et le dégel qui s’ensuit, avec sa boue gluante, que l’on nomme en russe la “raspoutitsa”, sont des phénomènes naturels d’une ampleur inconnue en Europe occidentale et centrale. Les effets de la “raspoutitsa” n’avaient pas été prévus par les responsables militaires allemands: Jean Vermeire se rappelait des monceaux de petites charrettes à deux roues, destinées à porter les impedimenta des fantassins de la Wehrmacht; elles s’amoncelaient, inutiles, aux abords des gares russes car leurs roues étaient trop près de leur caisse, elles accumulaient tant de boue de la “raspoutitsa” qu’elles ne pouvaient plus rouler: entre elles et la caisse, un amas de terre mouillée s’intercalait et bloquait tout.

 

Ensuite, autre exemple de cafouillage, que citait Jean Vermeire: les chars de la Wehrmacht, notamment les “Panther” et les “Tiger”, excellents sur le plan technique, véritables fortins sur chenilles, étaient des véhicules de luxe, avec des sièges recouverts de cuir sur rembourrage en crin de cheval. Chaque revêtement de cuir était cloué sur le bois de chaque siège à l’aide d’une centaine de petits clous de laiton! Ce luxe freinait la production: les Soviétiques, eux, laissaient nu le bois du siège de leurs tankistes, qui pliaient leurs manteaux pour se donner un minimum de confort. Moralité: quantitativement parlant, la production soviétique était supérieure à la production allemande, une supériorité qui était la clef de la victoire.

 

Aux sources du rexisme: les moqueries goliardes

 

Ce soir-là, et dans d’autres rencontres entre deux portes, Jean Vermeire évoquait le goût de la farce qui avait animé les milieux étudiants de Louvain et où Léon Degrelle avait excellé avant de se lancer dans la politique. Pour lui, comme pour d’autres, c’était ce goût pour les pieds-de-nez et les polissonneries qui fut le moteur de l’ACJB puis de Rex. L’itinéraire du caricaturiste Jam est à ce titre emblématique, de même que les moqueries goliardes de Degrelle dans son récit de la débâcle de 1940  (“La Cohue de 40”). Jam est d’ailleurs mort à sa table de dessin, fignolant sans doute une caricature féroce de l’un ou l’autre politicard belge.

 

A ce propos, Jean Vermeire nous avait confié une anecdote: Paul Jamain et lui, non encore grâciés et enfermés dans l’aile des condamnés à mort de la prison de Saint-Gilles, voyaient défiler des “touristes”, écoliers et membres d’associations patriotiques, dans leur aile où se trouvait aussi la cellule qu’avait occupée la malheureuse Gabrielle Petit, condamnée à mort pendant la première guerre mondiale pour espionnage en faveur des Alliés. La cellule de la jeune femme avait été laissée telle quelle, avec, sur le pauvre meuble servant de table de chevet, un livre de Charles Péguy. Parmi les “touristes”, il y avait eu sans doute un de ses collectionneurs impénitents, prêts à tout et ne respectant rien, qui avait subtilisé l’ouvrage de Péguy. Le gardien était affolé, craignait une sanction voire un congédiement pour faute grave parce qu’il n’avait pas ouvert l’oeil, et le bon, et avait laissé un malhonnête s’échapper, le livre de Péguy dans la poche de son pardessus. Nos deux larrons avaient pris ce gardien en pitié: Jean Vermeire l’a consolé et lui a dit qu’il possédait un exemplaire de ce livre de Péguy, qu’il demanderait à sa mère de le lui faire parvenir car, ajouta-t-il, “comme je vais être fusillé, je n’en aurais plus besoin”. Face à une  mort qu’ils pouvaient imaginer imminente, Vermeire et Jamain demeuraient deux garnements bruxellois qui, en dépit de la situation tragique dans laquelle ils se trouvaient, gardaient encore la force extraordinaire de tourner leur sort en dérision et de prendre en pitié un pauvre gardien, apeuré, lui, à l’idée de perdre sa maigre gamelle de maton. Le plus drôle, précisait Vermeire, en riant comme un collégien, c’était que son édition de Péguy datait de 1923... Mais, enfin, le gardien n’a pas été grondé ni chassé et personne n’a eu l’idée d’aller vérifier la date de l’édition du livre de Péguy exposé dans l’ancienne cellule de Gabrielle Petit...

 

Rétrospectivement, bien sûr, le séjour à Saint-Gilles ne fut pas toujours une sinécure, ne donnait pas tous les jours matière à rire. Vermeire, fataliste mais lucide, voyait bon nombre de ses co-détenus sombrer dans la routine des jeux de cartes ou dans des bondieuseries ridicules. D’autres imaginaient monter des plaidoyers en défense imparables, en se montant le col et en affirmant tout de go: “Je vais leur montrer, leur mettre le nez dans leur c... Ils l’auront dans le c..!”. Vermeire, sachant que les verdicts étaient prêts d’avance, tentait de les ramener à la raison: “Mais, vieux, tu as perdu la guerre!”. La défaite militaire annulait le droit des vaincus à une défense normale. Pire: il ne fallait pas laisser parler ceux qui connaissaient certains rouages de la “politique de présence”, préconisée en haut lieu, pour le cas où le Reich remporterait tout de même l’ultime victoire...

 

L’arrestation en pays mosellan

 

Vermeire, un jour, a conté son arrestation en Allemagne, dans la région mosellane. Maîtrisant l’allemand, il n’avait eu aucune difficulté à “plonger”. Il s’était retrouvé dans le château d’un vigneron mosellan, où il passait pour un employé du vignoble. Les semaines avaient passé et, un jour, des soldats polonais de l’armée britannique s’approchent du château à pas de Sioux, comme si, des fenêtres et du toit, des tireurs embusqués allaient les canarder. Jean Vermeire, debout, ne perdant rien du spectacle, dit à un civil allemand qui se trouvait à ses côtés: “Guck mal, die Polen, die üben!” (“Regarde, les Polonais sont à l’exercice”). Ils venaient pour le cueillir et le livrer à la justice belge. Amené devant un jeune lieutenant qui le reçoit poliment, Jean Vermeire voit son interlocuteur s’absenter quelques instants, alors que la porte donnant sur l’extérieur est restée ouverte. S’échapper? Et si c’était un piège? Pour l’abattre alors qu’il s’évade? Jean Vermeire est resté rivé sur sa chaise. A Bruxelles, devant l’auditeur militaire, on lui présente des photos de lui en uniforme: “Est-ce vous, là, sur cette photo?”, lui demande-t-on sur un ton rude. “Oui, bien sûr”. Regard abasourdi du magistrat: “Ah, bon, vous ne niez pas?”. “Mais que voulez-vous que je vous dise? Que c’est mon frère? Je n’ai pas de frère!”. La plupart des prévenus niaient. Vermeire avouait, persistait et signait.

 

Depuis la mort de Jean van der Taelen, en janvier 1996, je n’ai plus eu l’occasion de revoir encore souvent Jean Vermeire. Lors des obsèques de Jean van der Taelen, dans la magnifique église de la Cambre, dont le choeur est orné du plus beau vitrail moderne représentant la Sainte Trinité que j’ai jamais vu, Jean Vermeire m’a conté l’ultime visite du défunt chez lui, peu avant Noël. Ce dernier savait que la mort allait très vite l’emporter. Cette leucémie et les transfusions de sang, qu’elle requérait, avaient fait de van der Taelen un véritable spectre: “Je retrouve ma taille de jeune homme”, ironisait-il. En décembre 1995, il a pris Jean Vermeire dans ses bras et lui a dit: “Adieu Jean, tu ne me reverras plus vivant, on se retrouvera au ciel!”. Avec le recul, Vermeire en était tout ému, alors que ni l’un ni l’autre ne supportaient les bondieuseries.

 

Après une visite au “Musée Hergé”

 

Mes contacts ultérieurs ont été essentiellement téléphoniques. J’appelais pour demander une précision historique, pour demander rendez-vous avec l’un ou l’autre étudiant de l’UCL ou d’une université allemande en train de rédiger un mémoire sur la Belgique des années 30. Ou pour un éditeur qui cherchait des témoignages pour des chaînes de télévision allemandes. Rien de tout cela ne s’est concrétisé. La dernière fois, c’était le 3 ou le 4 août 2009. Je venais de visiter le tout nouveau musée Hergé à Louvain-la-Neuve et j’avais retrouvé un mémoire qui traitait, entre autres choses, de Pierre Daye. Je voulais demander des précisions pour parfaire notre savoir sur Hergé après les conférences de notre rédacteur en chef à Genève en février 2008, et que nous souhaitons refaire en d’autres villes. Je lui ai tout de suite annoncé que le musée de Louvain-la-Neuve n’avait ni omis un hommage discret à l’Abbé Wallez, en présentant une belle photographie de cet ecclésiastique de choc, ni à Victor Meulenijzer, le compagnon d’Hergé, le condisciple de Saint Boniface et le camarade de la troupe scoute du même nom, fusillé en 1946; le Musée Hergé expose son article sur le rôle métapolitique (on ne connaissait pas encore le mot!) des bandes dessinées et du dessin animé: il fallait, expliquait Meulenijzer, à l’Europe ou plutôt au conservatisme catholique européen une industrie du dessin animée pareille à l’entreprise de Walt Disney aux Etats-Unis. La conversation avec Vermeire est alors bien vite partie dans tous les sens. Avec une très grande tendresse dans la voix, Vermeire m’a déclaré que ses souvenirs de l’Abbé Wallez, de Hergé et de sa première épouse Germaine Kiekens, restaient gravés en son coeur comme quelque chose de “sacré”, d’intangible, qu’il ne souhaitait jamais oublier. Ces souvenirs sont ceux de l’époque 1937-1940, où il oeuvrait au “Vingtième siècle”, le journal que l’Abbé avait tenu à bouts de bras pendant près de vingt ans, avant de céder la place à de la Vallée-Poussin puis aux frères Ugeux, qui deviendront, eux, des “Londoniens”. William Ugeux, en effet, rejoindra le gouvernement belge en exil dans la métropole britannique.

 

Hergé au “Soir”, “JiVé” dans le maelström de la guerre à l’Est

 

XXsiècle.jpgJean Vermeire avait récemment fait un voyage à Paris, où on lui avait demandé d’intervenir en tant qu’expert pour déclarer vrai ou faux un dessin attribué à Hergé. Vermeire m’a expliqué que Hergé “arrangeait” d’une certaine façon les simples plumes “ballon” à sa disposition pour créer son propre trait dit de “ligne claire”. Le dessin, qu’on lui a soumis à Paris, portait bien cette marque de Hergé, que Vermeire, dans les mois qui ont précédé le désastre de mai 1940, connaissait, puisqu’il avait été pressenti pour travailler avec le créateur de Tintin, pour devenir son principal adjoint. Vermeire était lui-même dessinateur et caricaturiste, créateur de petites bandes dessinées éphémères, sous le pseudonyme de “JiVé”. La guerre mettra fin à la coopération Hergé/JiVé et le “Vingtième siècle”, avec son supplément jeunesse “Le Petit Vingtième”, cessera de paraître. Hergé et JiVé se retrouvent sur le carreau. JiVé décide de rejoindre Jam, devenu dès 1936 caricaturiste au “Pays réel” de Degrelle. Hergé, plus méfiant, refuse de rejoindre l’équipe du “Pays réel” et de créer pour le quotidien rexiste un supplément pour la jeunesse, appelé à remplacer le “Petit Vingtième”. Le journal lui paraît trop politisé et ses tirages trop faibles (12.000 exemplaires). Il rejoindra le “Soir”, qui n’est pas l’organe d’un parti et dont les tirages sont impressionnants (329.000 exemplaires). Raymond De Becker, personnaliste catholique attiré par les régimes dits “d’Ordre Nouveau”, prendra la direction du principal quotidien bruxellois, avec la ferme volonté de maintenir une “politique de présence”, comme on disait à l’époque. La “politique de présence” signifiait défendre des positions belges, plaider pour l’indépendance d’une Belgique au sein d’une Europe dominée par l’Axe. Cette “politique de présence” impliquait aussi d’honorer la personne du Roi Léopold III. C’est donc dans ce nouveau “Soir” qu’Hergé recevra une tribune et pourra continuer à faire vivre son héros Tintin.

 

On connait la suite: Tintin se maintient et conquiert un plus vaste public qu’au temps du “Vingtième siècle”. Hergé ne fait pas de politique: il conte, il narre, il dessine. “JiVé”, lui, est emporté par le maelström de l’époque. Du “Pays réel”, il passera à la “Légion Wallonie” et participera aux combats de cette unité sur le front russe, avant de représenter et son journal et son chef politique à Berlin, où, expliquait-il inlassablement, il cherchait aussi à maintenir une sorte de “politique de présence”, non plus d’une Belgique conventionnelle, mais d’une sorte de “Westreich” marqué par le souvenir des Ducs de Bourgogne (***). L’épopée de “JiVé” à la “Légion Wallonie” a été narrée en long et en large par Jean Mabire et Eric Lefèvre, dans plusieurs ouvrages publiés notamment chez Fayard et chez Grancher. Ce n’est pas à moi de revenir sur ces faits et péripéties dans cet article d’hommage.

 

L’univers inexploré du “Vingtième Siècle”

 

legWall.jpgCertes, c’est l’épopée russe et berlinoise de Jean Vermeire qui intéresse le plus les lecteurs de base d’éditeurs comme Fayard, Grancher ou les Presses de la Cité et, en général, de tous les ouvrages que l’on peut ranger dans la catégorie de “militaria”. Raison pour laquelle elle a été traitée en abondance dans les livres de Saint-Loup ou de Mabire ou a fait l’objet de livres de souvenirs, souvent poignants (Philippet, Terlin, K. Gruber, etc.). Néanmoins, ce que les historiens n’ont pas encore eu l’occasion de révéler au grand public, c’est un compte-rendu  précis, honnête et objectif des faits et des mouvements d’idées dans la période de transition entre l’époque du “Vingtième Siècle” et les aventures personnelles des garçons de cet univers catholique et conservateur belge pendant la seconde guerre mondiale (où il y eut des “Berlinois” et des “Londoniens”, tout comme, bien sûr, des adeptes de la “politique de présence”). Le chassé-croisé entre ces différents cénacles, les petits espaces de transition, aussi ténus soient-ils, les  relations entre personnes au-delà des clivages partisans devraient faire l’objet d’une recherche attentive, même si recueillir des témoignages personnels, comme ceux qu’aurait pu encore livrer Jean Vermeire, est devenu impossible. La Grande Faucheuse a fait son oeuvre.

 

L’idéologie du “Vingtième Siècle”, dont on sait qu’elle doit beaucoup à Maurice Blondel, au Cardinal Mercier, à l’Institut Supérieur de Philosophie de l’Université de Louvain, à Péguy, a su maintenir pendant deux décennies un niveau de journalisme inédit dans le royaume, jamais égalé depuis. Au contraire, la qualité journalistique de la presse francophone belge a sombré définitivement: pour le constater, il suffit de prendre en mains une copie du “Soir”, d’y lire les délires conventionnels des éditorialistes, les coupés-collés inspirés par la plus plate des “rectitudes politiques” ou par des pseudo-philosophes médiatisés à la Bernard-Henry Lévy (un “pompeux cornichon” ne cesse de proclamer le sympathique lanceur de tartes Noël Godin), à la Haarscher ou à la Comte-Sponville, ou les “quarts d’heure de la haine” contre tout ce qui relève de la Flandre, rendant le journal souvent plus caricatural que le fameux “Ministère de la Vérité” dans le “1984” de George Orwell. Le “Vingtième Siècle” a donc été un laboratoire idéologique de premier plan dans l’entre-deux-guerres belge. L’étude de son contenu est donc un impératif, de même que la vulgarisation, dans une perspective métapolitique, des recherches qui lui auront été consacrées.

 

Ceux qui sont devenus “Londoniens” pendant la deuxième grande conflagration inter-européenne du 20ème siècle ont encore eu un impact dans la vie politique belge après 1945, un impact qui s’est amenuisé au fil du temps, au fur et à mesure où la Belgique, toutes parties confondues, sombrait dans le “non Etre” des modes consuméristes, festivistes et idéologiques nées pendant les années 50, 60 et 70, où l’on a troqué la gloire des Ducs de Bourgogne, les héros sublimes du journal “Tintin”, les chromos Artis ou Historia contre les Beatles, le hash, le gauchisme de stade pipi-caca, les slogans politiquement corrects, le porno au quintal ou les trognes vulgaires d’Elvis Presley, de John Travolta ou de Michael Jackson. La trajectoire de ce corpus que fut le “Vingtième Siècle” part donc des lendemains de la première guerre mondiale pour nous conduire aux ultimes soubresauts d’intelligence politique des dernières décennies du 20ème siècle. Le journal de l’Abbé Wallez a joué en Belgique un rôle aussi important que l’Action française de Maurras en France  —même si le correspondant privilégié des maurrassiens en Belgique a été Fernand Neuray, directeur de “La Nation Belge”—  ou que l’ “Accion espagnola” à Madrid. Les deux mouvement, le français et l’espagnol, ont fait l’objet d’études critiques de haut niveau. Pourquoi ne serait-ce pas le cas pour le “Vingtième Siècle”?

 

En attendant, Jean Vermeire, témoin privilégié des deux ou trois dernières années du journal, a quitté la Terre, sans doute au son des tambours de lansquenets du “Mouvement légionnaire”, nous laissant orphelins de bon nombre de révélations importantes. Nous aimons penser qu’il y a rejoint le cher Jean van der Taelen, qui lui avait donné rendez-vous au “Ciel” quelques jours à peine avant qu’il ne parte pour le grand voyage.

 

Adieu, cher ami, cher capitaine, cher humoriste, nous regretterons votre Verbe et votre gouaille, votre rire et vos moqueries parfois cruelles, un Verbe, une gouaille, un rire et des moqueries bien rexistes, il faut le dire, mais qui appartiennent aussi à un certain esprit bruxellois ou liégeois, en train de disparaître corps et bien dans des villes livrées à tout sauf à elles-mêmes. Comme au héros d’ “Orange mécanique”, on a ôté à Bruxelles et à Liège (“Jam” était un “Lîdjeux” devenu “Bruss’leir”) leur verve et leur causticité, sous prétexte qu’elles sont politiquement incorrectes, trop insolentes pour les pontifes du “nouvel esprit” ou du “nouvel humanisme (?)”. On leur a ôté leur âme, leur créativité. Vous en étiez un bon morceau, une pièce de choix. Et vous voilà parti, vous aussi...

 

Jean KAERELMANS.

 

Notes:

(*) J’étais accompagné d’un futur chercheur de l’ULB, futur compagnon de route de l’excellent Prof. Paul Aron et spécialisé dans la presse et l’édition collaborationnistes, qui a glané moults informations chez Jean Vermeire et chez beaucoup d’autres, mais n’a sans doute jamais révélé ses sources à son nouveau patron... Le galopin s’est taillé, depuis, un beau palmarès de trahisons et de lâchetés, en tournant le dos à tous ceux qui l’avaient aidés..., poussant parfois la plaisanterie plus loin, en montant des cabbales et en semant des peaux de banane. La morale de cette histoire, c’est que les lâches sont souvent des traîtres emblématiques et que la trouille, qui  leur tenaille les tripes, provoque, outre des sudations surabondantes ou des rougeurs qui s’ajoutent à une couperose d’oenologue immodéré, des flots logorrhiques de justifications boîteuses qui suscitent involontairement des effets du plus haut comique.

 

(**) Jean van der Taelen avait accroché ce dessin, dûment encadré, au-dessus de la porte d’entrée de son appartement, boulevard Général Jacques, et me l’a montré deux ou trois fois, notamment après le décès de Paul Jamain, en me répétant que c’était là l’objet auquel il tenait le plus. Qu’est devenu ce tableau, non pas une caricature mais une peinture?

 

(***) L’étude du “mythe bourguignon” en Belgique reste à faire. Il n’a nullement été une spécialité rexiste. On le retrouve chez des auteurs comme Luc Hommel, Léon van der Essen, Jo Gérard, Gaston Compère, Drion du Chapois, etc. Une telle étude mérite de devenir un “chantier”...

lundi, 22 mars 2010

Del rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

saintEX.jpgDel rapporto tra volo e scrittura in Saint-Exupéry

Autore: Fiorenza Licitra /

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Robert Brasillach, scrittore e critico cinematografico del secolo scorso, rimproverò Saint-Exupéry di aver scritto della sua esperienza d’aviatore, asserendo che solo chi non ha esperito un mestiere e la sua arte sia in grado di parlarne con semplicità e stupore, al contrario di chi, conoscendoli bene, tende più a infiorare il racconto di sfarzi.

Come a dire che la caccia al leone può raccontarla meglio un animalista che un Hemingway.

L’autore del Volo di notte non ha bisogno di apologie, ha già fatto da sé spiegando all’ingenuità di Brasillach che un mestiere non è il risultato di una serie di regole contenuta in un manuale tecnico e non è neanche un’esperienza esteriore che vive di resoconti teorici, ma è  più la storia intima di un’azione fisica e sensuale.

Quello su cui a tal proposito vale la pena riflettere è la stretta connessione che c’è tra il volo e la scrittura, che non sono mondi dispari ed estranei, ma talmente affini da essere metafora l’uno dell’altra.

E’ grazie alle pagine di Saint-Exupéry che, se non si apprende la tecnica del volo, se ne vive tuttavia l’intima riflessione, la sospensione dal tempo e il legame con lo spazio.

Dalle sue rotte sospese l’aviatore-scrittore crea «una topografia celeste, più importante di quella terrestre, d’ordine quasi occulto, poiché si esprime solo attraverso i segni»: interpreta così le curve delle dune, decifra il colore della sabbia – scuro o tenero per un atterraggio di fortuna -, scopre che di notte la nebbia è una forma di luce e che le bianche pieghe del mare insegnano l’avversità del vento.

Accostandosi al misterioso linguaggio della natura, il cui alfabeto muto è denso di significati e di rimandi, stringe un tessuto di relazioni con il mondo grazie al quale «una pianura si fa più verde e diventa più pianura, un villaggio più villaggio».

Saint-Exupéry sa che apprendere un nuovo linguaggio, sottostando a quelle che sono le regole del gioco – tradotte a volte anche nei colpi di fucile dei Mauri – sia la vera meta del viaggiatore, a differenza del semplice turista che, ancorato alle sue convenzioni, dei luoghi coglie solo l’esotico e il pittoresco, gli aspetti più insignificanti del viaggio.

E’ nella scrittura che il pilota francese trasferisce la dialettica appresa in cielo: nei suoi racconti come nei suoi romanzi si trova la visione perspicua del mondo, la relazione con la notte e i suoi abissi, o quella con il deserto del Sahara, che delinea l’infinita ricerca del senso attraverso la simbologia del viaggio e il viaggio nella simbologia.

La letteratura non è forse questo? Non è la dimensione in cui l’uomo manifesta, mediante la parola scritta, la sua imperscrutabile relazione simbolica con il mondo? In Saint-Exupéry lo è senz’altro.

L’autore, senza utilizzare gerghi tecnici, traccia nero su bianco la rotta di stelle percorsa durante le traversate, affidando alle pagine il proprio sentimento di tenerezza per la sera che scende sulla città, che lo schianta molto più di quanto oserebbe la paura di un pericolo imminente, quella del vuoto e della morte.

A sostenere il suo lungo volo così come i suoi versi – è molto probabile che sia un poeta – è la necessità interiore, la cui voce si sente appena nel frastuono delle distrazioni e nelle abitudini indotte, ma che diviene forte e chiara quando un uomo è solo.

Ecco un altro aspetto sostanziale che accomuna il pilota allo scrittore: la solitudine di chi passeggia tra gli astri, in cerca di “un’unica stella su cui abitare”, è della stessa pasta di quella di chi prova a disegnare sulla mappa di un foglio bianco un fiume capace di toccare ogni regione del suo pensiero e ogni paese in cui dimora un sentimento. E’ una solitudine fatta d’inquietudine, di strade ignote e volti lontani, ma anche di fitte relazioni con il circostante al quale ci si accosta più facilmente quando lo si pensa, lo si immagina, lo si sente interiormente.

Infine quello che lega indissolubilmente i due mestieri, o meglio le due arti, dell’uomo Saint-Exupéry è il sogno: il pilota, che dal cielo immagina una donna in particolare o le schiene doppie dei cammelli, sogna allo stesso modo dello scrittore che, impugnando una penna, segue una visione più forte del vero.

Saint-Exupéry troverà la morte nel Luglio del 1944, mentre sorvola l’Île de Riou, a sud di Marsiglia. Nonostante le lunghe ricerche, durate anni, il suo corpo non è mai stato ritrovato, ma è normale che sia così: non lo troverete in fondo al mare, ma sul pianeta del Piccolo Principe a guardare – quando la malinconia lo coglierà forte – quarantatré tramonti in compagnia di una rosa.

Per il resto del tempo sarà più facile scorgerlo mentre «si esercita agli attrezzi tra le stelle», come quell’equilibrista del volo e della scrittura che fu.

Non bisogna cercarlo in fondo al mare, non è laggiù; più facile, invece, sarà trovarlo mentre si esercita agli attrezzi tra le stelle, come quell’equilibrista del simbolo che è.

mardi, 09 mars 2010

El Cuestionario de Ernst von Salomon

El Cuestionario de Ernst von Salomon

Autore: Julius Evola - Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Ernst von Salomon

salomon_ernst_01_1938_k.jpgEn Alemania tuvo una triste fama el denominado “Cuestionario”: der Fragebogen. Era un formulario que había que llenar y que comprendía 131 preguntas, las cuales no solamente representaban un sistema de información sobre cada mínimo detalle de la persona, de la vida y de las actividades del interrogado, sino que implicaban un verdadero y propio “examen de conciencia”. La única diferencia estaba en que quien lo solicitaba no era la Iglesia sino el gobierno militar aliado.

Justamente con el título El Cuestionario Ernst von Salomon ha escrito un libro que ha tenido en Alemania una vasta resonancia y que ahora ha salido a través de Ediciones Longanesi en versión italiana con el título modificado de Yo sigo siendo prusiano (Io resto prussiano). Von Salomon es ya conocido por otros libros exitosos tales como La ciudad, Los proscriptos, Los cadetes. Aquí emplea casi 900 páginas para darle al aludido “cuestionario” aliado la respuesta deseada de acuerdo a su conciencia. Las diferentes preguntas son ocasiones para una especie de sugestiva autobiografía, que comprende al mismo tiempo el encuadre de acontecimientos, de experiencias y de encuentros de todo tipo, desde el período de la primera posguerra al de la ocupación aliada.

El rubro reservado a las “observaciones” es quizás el más impresionante: se refiere a todo aquello que el autor experimentó con los norteamericanos en sus campos de concentración. En su objetividad es un terrible documento respecto de una brutalidad inaudita, cuanto más odiosa en tanto ha sido producida por aquellos que presumieron de dar a su guerra el carácter de una cruzada en nombre de la humanidad y de la dignidad de la persona humana. Aun queriendo establecer un paralelo con aquello que pudo acontecer en algún campo de concentración alemán, aquí no era ahorrado ni el combatiente heroico, ni el general, ni el alto o digno funcionario, agregándose también aquellas personas arrestadas casualmente que no estaban en condiciones de responder sobre nada en especial. Lo cual fue el caso del mismo von Salomon, nunca inscripto en el partido nazi, y de su compañera, una judía protegida por éste en contra de las medidas anti-hebraicas, a la cual le había hecho poner un nombre falso. Ambos no fueron liberados sino después de más de un año de vida degradante, luego de haberse dado cuenta de que… se trataba de un equívoco.

Respecto al contenido del libro, queremos tan sólo hacer mención a todo aquello que se refiere a aspectos poco conocidos de las fuerzas políticas que en Alemania actuaron durante el advenimiento de Hitler y, en parte, también durante su dictadura. Tal como se ha dicho, Salomon no era nazi. Pertenecía más bien a aquel movimiento que puede denominarse como de la “revolución conservadora“. Luego del derrumbe de 1918 en Alemania tomó forma un movimiento múltiple de entonación nacionalista el cual se proponía la renovación resuelta de formas y métodos, conservando sin embargo los principios fundamentales de la tradición y de la concepción germánico-prusiana del Estado. Con este espíritu estuvieron animadas las formaciones de voluntarios que, al mando del capitán Erhardt, se batieron en la frontera oriental aun luego del derrumbe y que luego, al lado de otras corrientes, actuaron como fuerzas políticas en contra de la Alemania de Weimar, la socialdemocracia y el comunismo. Aquí la consigna era la “revolución desde lo alto”: es decir, una revolución que partiera del Estado y desde la idea de Estado y desde el concepto de autoridad legítima. Estos mismos ambientes forjaron entonces por vez primera la famosa fórmula del “Tercer Reich”.

Ernst_von_Salomon_-_Der_Fragebogen,_157__-_181__Tausend,_Juli_1952.jpgY bien, todo este nucleamiento vio en el nacionalsocialismo no tanto la realización cuanto la traición de sus ideas. Tal como dice von Salomon, el primer serio y gran tentativo del movimiento nacional de provocar un vuelco histórico decisivo partiendo desde lo alto, desde el Estado, fracasó a causa de la existencia de Hitler. Con Hitler, nos agrega, el acento decisivo del nacionalismo se desplazó del Estado al pueblo, a la pura autoridad de la nación como colectividad, y ello fue formulado en el hecho de que para defender una concepción política totalmente opuesta fue utilizada una terminología que se remontaba en gran parte al patrimonio tradicional germano-prusiano.

Todo sumado, nos dice Salomon, el régimen totalitario instaurado por Hitler no sale de los marcos de la democracia, más aun es una democracia exasperada en una especie de tribunado del pueblo. El poder se lo conquista a través de las masas, la legitimación formal del poder es recabada de las masas, mientras que el Estado tradicional autoritario se basa en la jerarquía y sobre un concepto autónomo y superior de la soberanía. Por esto von Salomon no podía ser nacionalsocialista; ni tampoco lo fueron muchos otros que, luego del advenimiento de Hitler y del “partido de masas”, se echaron atrás o bien se afiliaron al movimiento con la sola intención de accionar desde lo interno del mismo en el momento oportuno, luego de que hubiesen sido resueltos algunos problemas improrrogables de política interna y externa. Muchos de tales elementos figuraron entre aquellos que intentaron liberarse de Hitler en junio de 1944. Esta veta escondida de la “revolución conservadora” es en general muy poco conocida, a pesar de su importancia. También a tal respecto los libros de von Salomon son interesantes documentos.

Respecto del último punto, corría por Alemania la siguiente historieta. Se preguntaba: “¿Qué es peor, que se gane la guerra y los nazis sigan estando, o bien que se la pierda y que los nazis desaparezcan?” La respuesta humorista era: “Lo peor de todo es perder la guerra y que a pesar de ello los nazis sigan estando”. Von Salomon nos refiere que, aparte de la broma, los ambientes que le resultaban cercanos habrían considerado una cuarta posibilidad: Ganar la guerra y sobre la base de ello liberarse luego del gobierno de los nazis. Ello en la medida que aun sin ser tan radicales, se hubiese hablado de una acción que, partiendo de las fuerzas combatientes más puras, hubiese removido las estructuras del Estado totalitario tribunalicio en nombre del ideal de un verdadero Estado nacional jerárquico, en esto se habría quizás tenido la fórmula de un futuro mejor, válido no sólo para la Alemania sino quizá también para la misma Italia.

* * *

Roma, 2 de julio de 1954.

lundi, 08 mars 2010

Das politische Volk

polvolk.jpg

 

Das politische Volk

Hans Freyers Theorie der Volksgemeinschaft - eine Wirkungsgeschichte mit Brüchen.

(in: Ethnologie und Nationalsozialismus, Hg. Bernhard Streck, Gehren, Escher Verlag, 2000)

Ex: http://www.uener.com/

Geschichte der Soziologie oder Vergangenheitsbewältigung?

Um die Mitte der siebziger Jahre begann die Soziologie in Deutschland sich auf ihre jüngste Geschichte zu besinnen; es ging weniger um ihre Klassiker, die seit jeher zum Kanon der Fachausbildung gehörten, vielmehr um Werk, Wirkung und politisches Profil ihrer wissenschaftlichen "Väter" und "Großväter" als Repräsentanten der deutschen Soziologie der Zwischenkriegszeit 1918-1945. Auslöser für diese Recherchen waren einerseits neue Konzepte der Wissenschaftssoziologie: Die Struktur wissenschaftlicher Revolutionen und das Konzept des Paradigmenwandels (Kuhn 1976), soziale und kognitive Institutionalisierungsprozesse und Stadien der Wissenschaftsentwicklung (Mullins/Mullins 1973), wurden auf die eigene Disziplin angewandt und machten gerade die Zwischenkriegszeit mit ihren politischen Umbrüchen, sozialen Krisen und kulturellen Experimenten zum bevorzugten Analysegegenstand einer "Wissenschaftssoziologie der Soziologie". Andererseits waren diese wissenschaftlichen Bemühungen stets begleitet von einer stark emotionalisierten Aufarbeitung persönlicher Lebensgeschichten: als zornige Abrechnung der Nachkriegsgeneration mit ihren Vätern, als moralische Kritik an den geistigen Irrwegen, die zwangsmäßig zur Katastrophe des Nationalsozialismus führen mußten - oder auch als Rechtfertigung bzw. gegenseitige Schuldzuweisung der betroffenen Zeitzeugen. Diese Kontroversen haben eine systematische wissenschaftliche Analyse erschwert, aber gleichzeitig eine lebhafte und pointierte Diskussion ausgelöst und werden selbst wieder zu Forschungsgegenständen einer bewegten Wirkungsgeschichte der Soziologie, an der Konflikte und Zusammenwirken von wissenschaftlichen Ideen, persönlichen Karriereentscheidungen, plötzlichem Wechsel des politischen Rahmens und institutionellen Zwängen hervorragend studiert werden können. Die ideengeschichtliche Perspektive, die zweifellos ihre Berechtigung behält als Fortschreibung und Sicherung des disziplinären Wissenskanons, tritt hier zurück zugunsten einer wirkungsgeschichtlichen und wissenschaftssoziologischen Analyse und eines biographischen Aspekts. Damit erscheinen neben den Institutionen Wissenschaft und Universität mit ihren in langer Tradition gefestigten Regeln der Wissensproduktion, Sozialisation, Selektion, Paradigmenbindung etc., wissenschaftsexterne Einflußfaktoren auf das Werk: sowohl schicksalhafte Ereignisse, politische Umbrüche, Kriege, als auch subjektive Merkmale, wie Temperament und Begabung, familiäre Bindungen und Freundschaften, persönliches politisches Engagement und alle Zufälle des persönlichen Lebensweges; persönliche Verantwortung und Versäumnisse werden damit auch zum soziologischen Forschungsproblem.

Die Berücksichtigung außerwissenschaftlicher Faktoren, vor allem der politischen Ereignisse, hat in dieser deutschen Nachkriegsdiskussion zu einer nationalstaatlichen Isolierung der Soziologiegeschichte und zu einer zeitlichen Zentrierung auf das Schlüsselereignis der "Machtergreifung 1933" geführt. Beides ist sachlich unzulässig und führt zu verzerrten Ergebnissen. In der Zwischenkriegszeit bestand weiterhin ein dichtes Kommunikationsnetz der verschiedenen intellektuellen Milieus des deutschsprachigen Mitteleuropa - dazu gehörten auch Prag und Budapest als Kulturzentren der Habsburger Monarchie - das erst durch den 2. Weltkrieg zerstört wurde (Lepsius 1981a: 7-10). Auch eine zeitliche Eingrenzung auf die zwanziger Jahre oder auf die Zeit des Nationalsozialismus muß zu irreführenden Ergebnissen führen. Wenn auch die politische Zäsur 1933 in Deutschland einen deutlichen Bruch mit der Soziologie der zwanziger Jahre hervorrief und eine weitere Spaltung nach 1933 durch die Emigration verursachte, so sind doch in allen drei Fragmentierungen weiterhin auch Gemeinsamkeiten hinsichtlich wissenschaftstheoretischer Grundlagen, des wissenschaftlichen Selbstverständnisses und der Paradigmen festzustellen. Die äußerst schöpferische Kultur und Wissenschaft der Weimarer Republik zehrte von längerfristigen europäischen geistigen Strömungen, die durch Kulturkampf und Wissenschaftspolitik im wilhelminischen Deutschland größtenteils abgeblockt waren und danach mit gesteigerter Wucht zum Durchbruch kamen. Vor allem die Soziologie war davon betroffen - sie fand in Deutschland erst in den zwanziger Jahren Anerkennung als akademische Disziplin, und wurde im Gesamtzusammenhang dieses kulturellen Durchbruchs zur gesellschaftlichen Erneuerungsbewegung hochstilisiert. Die Ursprünge der Sozialwissenschaften und ihre großen Fortschritte im 19. Jahrhundert sind jedoch im langfristigen europäischen und transatlantischen Diskurs verankert, der in einer im Vergleich zu heute viel übersichtlicheren Wissenschaftsgemeinschaft mit wenigen maßgeblichen Zeitschriften nach 1918 in Deutschland noch einmal einen Höhepunkt erreichte. Die 1909 gegründete Deutsche Gesellschaft für Soziologie (DGS) hatte zahlreiche Mitglieder aus dem deutschsprachigen Mitteleuropa, die zum Teil auch führende Positionen einnahmen. Die durchgängigen europäischen kulturellen Traditionen blieben also ebenso relevant wie die nationalen politischen Ereignisse. Erst durch eine Mehrebenen-Betrachtung in diesem Sinne, die erstens vermeidet, das Jahr 1933 als einen alle gesellschaftlichen Bereiche revolutionierenden Bruch zu definieren, die zweitens sich nicht auf den deutschen nationalstaatlichen Raum beschränkt, der vor 1871 ja nicht in dieser Form existiert hatte, wird man das Zusammenspiel der einzelnen Ebenen zeigen können, in dem euphorische Übersteigerungen, Sinnverschiebungen und Bedeutungswandel sozialwissenschaftlicher Modelle und Theorien zustande kamen - ein Zusammenspiel, das von Synergieeffekten bis zur gegenseitigen Blockade reichen konnte.

Die meisten Arbeiten über diese Zeit wurden als "kritische" Analysen unternommen, jedoch nicht im Sinne dieser Mehrebenen-Analyse, die mit einer immanenten Interpretation auf der Grundlage einer zeitgenössischen Ortsbestimmung auch eine Einordnung in den Gesamtzusammenhang ex post, sowie ein Prüfen der logischen Folgerichtigkeit der Werke vereinen würde; "kritisch" verstanden sich die Forschungen vielmehr im Sinne einer "Vergangenheitsbewältigung", die das "falsche Bewußtsein" der damaligen Gelehrten als Wegbereiter des Nationalsozialismus aufdecken sollte und diese damit zu Ideologen erklärte. So wird in einer intellektuellen Biographie Hans Freyers von der wissenschaftlichen Leistung Freyers von vorneherein abgesehen (dabei jedoch konzediert, daß seine wissenschaftlichen Werke heute noch mit Profit gelesen werden könnten), da seine historische Bedeutung als radikal-konservativer Ideologe überwiege (Muller 1987: 3). In einer Darstellung der deutschen Soziologie 1933-45 wird Freyer zum Ideologen der nationalsozialistischen Bewegung erklärt, da er bereits 1930 den gesellschaftlichen Willen als Hiatus zwischen Vergangenheit und Zukunft bzw. Theorie und Praxis in sein soziologisches Konzept einbezogen hätte.(Rammstedt 1986: 44 f.) Oder er wird in einer renommierten historischen Darstellung der Kultur der Weimarer Republik lediglich als "völkischer Schriftsteller" erwähnt, seine wissenschaftliche Karriere wird dabei außer acht gelassen ( Gay 1970: 11). Dies sind durchaus folgerichtige Eingrenzungen des Forschungsinteresses, wenn Gesellschaft und Kultur der Weimarer Zeit ausschließlich vom "Endpunkt" des Nationalsozialismus her charakterisiert werden.

Die Frage, wie es 1933 zur politischen Katastrophe in Deutschland kommen konnte, die ja eine harte historische Tatsache ist, sollte nicht dazu führen, im nachhinein alle Entwicklungen auf diesen Kulminationspunkt der Katastrophe hin zu interpretieren. Am weitesten geht dabei wohl Georg Lukács, der eine immanente und zwingende Kausalkette herstellt von einem historischen Eklektizismus in der Nationalökonomie des 19. Jahrhunderts über einen Werterelativismus, gefördert durch die damalige Psychologie, bis zum Irrationalismus, bei dem Max Weber gerade durch seine Exclusion der Werte aus der Wissenschaft gelandet wäre - sowie zu Hans Freyer, der durch Übertragung der Existenz- und Lebensphilosophie auf die gesellschaftliche Ebene den positiven Weg zum Faschismus frei gemacht hätte (Lukács 1946). In derartigen Rezeptionen spiegelt sich der Kampf der Ideologien des 20. Jahrhunderts; sie tragen jedoch kaum zu einem historisch-wissenschaftlichen Erkenntnisfortschritt bei, denn was Resultat der Analyse sein sollte, ist darin von vorneherein vorgegeben; man betreibt "Vergangenheitsbewältigung, und die "wissenschaftliche" Arbeit wird dabei zur bloßen Reifikation. Auch in der historischen Analyse muß das Ergebnis zunächst offen sein, die Komplexität der Prozesse und die Falsifizierbarkeit der Ergebnisse und Theorien müssen erhalten bleiben.

Die wissenschaftliche Bearbeitung dieser Zeit wurde durch die Gründung einer Arbeitsgruppe "Ethnologie im Nationalsozialismus" nun im Fach Ethnologie aufgenommen, und die Arbeiten zur Soziologie der Zwischenkriegszeit können erste Vergleichsmöglichkeiten bieten. Das Buch von Otthein Rammstedt, Deutsche Soziologie 1933-1945 (1986) hat vermutlich deshalb in die ethnologische Diskussion Eingang gefunden, weil der Begriff der Volksgemeinschaft darin eine zentrale Rolle spielt. Dieses Buch, das eine Bibliographie der "Soziologischen Literatur im Dritten Reich" von mehr als 200 Seiten enthält, im Text aber nur wenige, bereits in anderen Arbeiten hinlänglich diskutierte Werke behandelt, kann hier als paradigmatisches Exempel einer wissenschaftlichen "Vergangenheitsbewältigung" im o.a. Sinn dienen.

Rammstedt kommt in seiner Abhandlung schnell auf das Hauptergebnis seiner Forschungen: Ab 1933 hätten die in Deutschland verbliebenen Soziologen eine paradigmatische Eigenständigkeit und Einheit nach innen wie nach außen vertreten, im Sinne einer "deutschen" Soziologie (in Anführungsstrichen) bzw. Deutschen Soziologie (groß geschrieben - ähnlich wie damals auch eine Deutsche Physik propagiert wurde). Da die für seine Abhandlung erstellte Bibliographie ein unerwartetes Übermaß an nationalsozialistischen Arbeiten ergeben hätte, fühlte Rammstedt sich berechtigt, mehr oder weniger die gesamte sozialwissenschaftliche Profession in Deutschland nach 1933 unter dieses einheitliche Paradigma der Deutschen Soziologie zu subsumieren, das er als einen totalitären Ansatz versteht, der jedoch weder von den zeitgenössischen Wissenschaften im Ausland, noch in späteren Rezeptionen, auch nicht in der bisherigen Fachgeschichtsschreibung wahrgenommen worden wäre (1986:20-22).

Zwei Kritikpunkte sind hier anzuführen:
Erstens müßte die Feststellung, daß die zeitgenössische internationale scientific community, die doch die deutsche Entwicklung äußerst kritisch verfolgte, den totalitären Ansatz der Deutschen Soziologie nicht wahrgenommen hätte (Rammstedt 1986: 22f.), und die sich dabei auf Durchsicht renommierter Zeitschriften und Verhandlungen internationaler wissenschaftlicher Gesellschaften nach 1933 bezieht, den Autor doch zu einer Überprüfung veranlassen, ob seine Subsumierung der Soziologie in Deutschland unter das totalitäre Paradigma Deutsche Soziologie überhaupt wissenschaftlich haltbar ist. Freyers theoretische Grundlegung der Soziologie (1930), auf der seine nachfolgenden Arbeiten zu den Aufgaben der Soziologie, zur politischen Erziehung, zu Herrschaft, Planung und Technik, sowie zum Volksbegriff theoretisch aufgebaut sind, ist als eine der wenigen Arbeiten der jüngeren deutschen Soziologengeneration nach Max Weber im Ausland rezipiert worden. Sie wurde als interessante Fortführung des Ansatzes Max Webers in Frankreich auch nach 1933 wahrgenommen (Aron 1935: 4, 175), und der amerikanische Soziologe Talcott Parsons übernahm 1937 in seinem frühen Hauptwerk The Structure of Social Action (New York 1968: 473) nicht nur Freyers geschichtsphilosophische Fundierung der Soziologie im Idealismus, sondern stützte sich auch im wesentlichen auf Freyers Klassifikation der Wissenschaften in Natur-, Logos-, und Wirklichkeitswissenschaften (762, 774), um nur einige Beispiele des internationalen Diskurses zu nennen. Einige der Schüler Freyers haben sowohl in Deutschland als auch in der Emigration dessen theoretische Grundlegung ausgebaut1.
Zweitens kommt mit der Subsumierung aller soziologischer Arbeiten in Deutschland nach 1933 unter "Deutsche Soziologie" eine ideologische Kategorisierung der Soziologie sozusagen "durch die Hintertür" wieder ins Spiel, die damals nur von wenigen nationalsozialistischen Karrieristen vertreten wurde: Wenn man alle in Deutschland verbliebenen Soziologen unter dem Paradigma "Deutsche Soziologie" zusammenfassen kann, müßte daraus dann nicht auch eine Zusammenfassung der Emigranten folgen - etwa unter dem Paradigma "Jüdische Soziologie", oder "liberalistische Soziologie"?

Rammstedt hat auf jeden Fall einen heftigen Protest der älteren Soziologengeneration als Zeitzeugen herausgefordert. Unter ihnen war es vor allem René König, der selbst noch nach 1933 in Deutschland studiert und und publiziert hat, bis er 1938 nach Zürich ging - der als einer der führenden deutschen Soziologen nach 1945 zeit seines Lebens gegen alle restaurativen Tendenzen und gegen die Fortsetzung nationalsozialistischer Karrieren gekämpft hat - der die theoretische Denkfigur der Deutschen Soziologie bei Rammstedt lediglich durch einen primitiven Empirismus abgestützt fand (König 1987: 393 ff.): Statt seine These theoretisch zu differenzieren, könne er sie nur abstützen durch "eine ungemein dilettantisch und primitiv aufgestellte Bibliographie, [die] das bisher erreichte Maximum an versuchter Irreführung eines harmlosen Publikums darstellt, das über keinen substantiellen Blick nach rückwärts verfügt [...]" (395). König mahnt dabei nicht nur das Fehlen seiner und vieler anderer Publikationen in der Bibliographie an, sowie den fehlenden Bezug auf seine eigene bereits 1937 geschriebene theoretische Kritik der historisch- existenzialistischen Soziologie (1975), sondern bezichtigt Rammstedt darüber hinaus, er hätte sich auf genau die abwegige Linie weniger Soziologen (vor allem Hans Freyers) um 1933 verleiten lassen, die aus der Fiktion, die gesellschaftliche Wirklichkeit hätte sich mit dem politischen Umbruch 1933 sprunghaft geändert, folgerten, daß die Erkenntnishaltung der Soziologie als Wissenschaft sich ebenfalls grundlegend ändern müsse (394) - hin zur nun alleine hoffähigen Deutschen Soziologie. König verabsolutiert hier allerdings ebenfalls den Umbruch 1933, denn die soziologischen Theorien der sogenannten Deutschen Soziologen Rammstedts wurden lange vor 1933, in den Aufbruchsjahren der Weimarer Republik konzipiert. Auch tendiert König in seiner o.a. theoretischen Kritik stellenweise zu ähnlichen Vereinfachungen, indem er die historisch-existenzialistische Soziologie besonders anfällig für Gewalt (1975: 13) und die Anfälligkeit dieser Denkformen und Denker für den Nationalsozialismus (1975: 267) herausstellt und sich dabei im wesentlichen auf Freyer und Heidegger beruft. Da zu den berühmtesten Vertretern einer historisch-existenzialistischen Soziologie auch Emigranten der "Frankfurter Schule" zu rechnen sind, führt es nicht weiter, theoretische Denkfiguren, wie die historisch-existenzialistische Theorie, eine politikwissenschaftliche Liberalismuskritik, oder auch die Gleichsetzung von Theorie und Praxis, mit Faschismus oder Nationalsozialismus in eine Linie zu bringen. Um derartige Theorien mit der Realpolitik zu verbinden, sind immer institutionelle Schaltstellen nötig, und diese sind im einzelnen nachzuweisen.

Im Falle Hans Freyers wird versucht, diese Schaltstelle zu belegen durch seine Wahl zum Präsidenten der Deutschen Gesellschaft für Soziologie (DGS) im Dezember 1933 (u.a. Klingemann 1981, Käsler 1984). Hans Freyer nahm nach vorheriger Absage die Wahl zum Präsidenten der DGS im Dezember 1933 nur deshalb an, um die Gegengründung eines neuen nationalen Soziologenverbandes durch eine radikale Gruppe NS-orientierter Soziologen, die sich tatsächlich "Deutsche Soziologen" bezeichneten, zu verhindern2. Das ist gelungen, und nach 1934 gab es keinen nennenswerten Auftritt dieser radikalen Deutschen Soziologen mehr, bzw. ist sie offensichtlich nie zu einer nationalen Organisation geworden.

Freyer hätte Ende 1933 tatsächlich alle institutionellen Möglichkeiten in der Hand gehabt, zum "Führer" der Soziologen im neuen nationalsozialistischen Deutschland zu werden: Er war Präsident der traditionellen Fachorganisation DGS, er wäre als Kompromißkandidat auch von der neuen radikalen Gruppe akzeptiert worden, und er war bestens eingeführt sowohl in der internationalen Kant-Gesellschaft als auch in der Deutschen Philosophischen Gesellschaft; er hätte zudem als Herausgeber der neuen soziologischen Zeitschrift Der Volksspiegel (ab 1933) die Schaltstelle für Publikationen einer nationalsozialistischen Soziologie kontrollieren können. Aber er nützt keine dieser Gelegenheiten aus, unterläßt weitere Aktivitäten als Präsident der DGS und gibt die Herausgeberschaft des Volksspiegel 1934 wieder auf. Aus dem Nicht-Ausnützen insitutioneller Vorteile und aus seiner wiederholten Ablehnung einer Parteimitgliedschaft läßt sich schließen, daß sich Freyer von einer nationalsozialistischen Vereinnahmung fernhalten wollte, was er stets sehr höflich und vorsichtig, niemals mit theatralischer Pose, durchzuhalten wußte. Auch spricht Freyers Rückzug gegen Rammstedts These, Freyer hätte, wie die anderen Deutschen Soziologen, die hypertrophe Absicht gehabt, die Soziologie als eigenständige Kraft im Prozeß der Volkwerdung neben der Politik zu institutionalisieren (Rammstedt 1986: 128 f.); dazu wären doch die ihm zur Verfügung stehenden Positionen hervorragend geeigent gewesen. Sein Wirken an der Universität war nach übereinstimmenden Aussagen ehemaliger Schüler gekennzeichnet vom Bemühen, nach außen möglichst kein Aufsehen zu erregen, um seinen Schülern und Kollegen in seinem Istitut einen Schutzraum zur wissenschaftlicher Arbeit zu erhalten. In der Atmosphäre des zunehmenden allgemeinen Mißtrauens konnte das allerdings auch irritieren - man wußte nicht, woran man war3. Die Konzessionen Freyers werden genauestens berichtet ( z.B. Muller 1987), die Gegenbeispiele jedoch übersehen: Freyer hat nach 1933 sowohl die Marx-Studien seines Schülers Heinz Maus (nach 1945 einer der prominenten Vertreter einer marxistischen Soziologie in Marburg) gedeckt und ihn aus dem Gefängnis geholt4, wie auch den Leipziger Philosophen Hugo Fischer bis zu seiner Flucht nach Norwegen geschützt, der (wie H. Maus) mit der nationalbolschewistischen Bewegung verbunden war. Für die Berliner "Mittwochsgesellschaft" war Freyers Deutsches Wissenschaftliches Institut in Budapest bis 1944 ein ausländisches Vortrags- und Kontakt-Refugium, und zahlreiche ungarische Kollegen verdanken Freyer ihre Rettung in letzter Minute vor den sowjetischen Besatzern. Freyer wird von Carl Goerdeler als Mittelsmann seiner Widerstandsgruppe in den Verhören nach dem 20. Juli 1944 genannt, und diese Verhöre sind längst publiziert (Archiv Peters 1970). Nach 1945 hat Freyer in Leipzig den in Bonn abgelehnten marxistischen Historiker Walter Markov habilitiert, der später, mit Jürgen Kuczynski in Berlin als Gegenfigur, zur Historikerprominenz der DDR gehörte.


1933 - Zugriff der Politik - Abwehrmechanismen der Wissenschaft

Aus soziologischer Sicht ist die Wissenschaft als gesellschaftlicher Prozeß zu denken, d.h. es ist herauszustellen, "welche Funktionen und Wirkungen die Wissenschaft im gesellschaftlichen Prozeß hat bzw. unter welchen gesellschaftlichen Bedingungen ihr diese Funktionen zugeschrieben werden können" (Bühl 1974: 19). Das soll auf keinen Fall heißen, daß Wissenschaft nur ein "Abbild der gesellschaftlichen Verhältnisse" wäre (zu diesem ist sie gerade in geschichtlichen Rückblicken oft degradiert worden), sondern es wird das Modell eines relativ selbständigen Teilsystems zugrundegelegt, in dem die gesellschaftliche Definition und Funktion von Wissenschaft und die immanenten logischen Konstrukte und wissenschaftstheoretischen Definitionen relativ unabhängig variieren. Die Wissenschaftssoziologie geht heute von einem sehr komplexen Zusammenwirken auf unterschiedlichen Ebenen des inneren und des äußeren Systems von Wissenschaft aus - ein Modell, das der Wissenschaft als eine der großen Institutionen der modernen Industriegesellschaft seit Mitte des 19. Jahrhunderts am ehesten entspricht. Die modernen Diktaturen im 20. Jahrhundert konnten weder auf die Wissenschaft verzichten, noch diese Institution vollkommen unter ihre Kontrolle bringen; die Förderung der Wissenschaften gehörte zu ihrem politischen Programm (wenn auch nach ihren politischen oder weltanschaulichen Vorstellungen), da der wissenschaftliche Fortschritt politische Macht und internationalen Einfluß verlieh. Ab welchem Punkt das komplexe Zusammenspiel von Wissenschaft und Politik mit seinen Prozessen der Kooperation, Konkurrenz, Selektion von vordringlichen Aufgaben, von Personal, Kontrolle der Veröffentlichungen usw., das in jeder modernen Gesellschaft in unterschiedlichen Varianten stattfindet, pervertiert wird und zu einseitiger Machtausübung führt, muß in jedem Einzelfall untersucht und begründet werden.

Bereits das "Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums" 1933, danach u. a. die bürokratische Macht der NS-Dozenten- und Studentenbünde, die vornehmlich jüngere, karrierebesessene, aber wissenschaftlich mittelmäßige Köpfe anzog, waren Perversionen des komplexen Wissenschaftssystems, deren Folgen nicht nur im Verlust durch Emigration oder in der Rekrutierung von nationalsozialistischen Parteigängern bestanden, sondern die sich bis in die wissenschaftlichen Texte auswirkten, auch in solche, die als nicht politisch relevant galten. Entstellungen der Wissenschaft in diesem Sinne sind in den Verklausulierungen der inneren Emigration ebenso zu finden, wie in der zweideutigen Alltagskommunikation von Kollegen, die sich seit langer Zeit zu kennen glaubten. Es war ein schleichender Erosionsprozeß der Wissenschaft, dessen Folgen weit in die Nachkriegszeit wirkten. Trotzdem war auch in dieser "dürftigen Zeit" die Wissenschaft nicht am Ende.

Im Prozeß der zunehmenden Unterhöhlung der wissenschaftlichen Institutionen durch die Politik wird die Erhaltung des noch verbleibenden "Restsystems" um jeden Preis zum Überlebensprinzip. Dabei kommt es zu unvermeidlichen "Abwehrmechanismen" gegen die politischen Übergriffe, die in allen modernen totalitären Regimes in ähnlicher Weise auftreten. Sie haben die Funktion, das Wissenschaftssystem, wenn auch unzulänglich oder entstellt, aufrechtzuerhalten und dem direkten politischen Zugriff insgeheim auszuweichen - die Bildung von kleinen Verschwörergemeinschaften der engsten Mitarbeiter, die bewußten Plagiate oder die Camouflage brisanter Themen in Klassiker-Analysen gehören ebenso zu diesen wissenschaftlichen Abwehrmechanismen, wie ein übertriebenes professionelles Verhalten und Vokabular, mit dem politische Gegner ihre parteiideologischen Kämpfe verbrämten, oder auch die beflissene Einhaltung bürokratischer Regeln, um wenigstens ein Mindestmaß an wissenschaftlicher Arbeit voranzubringen. Diese Abwehrmechanismen verursachen Schäden und sind zu bedauern wie Krankheitssymptome, ihr Auftreten ist jedoch ebenso sicher zu erwarten wie diese, wenn eine derartige politische Situation einmal eingetreten ist.

Bei der institutionellen Gleichschaltung der Universitäten waren den betroffenen Wissenschaftlern kaum Handlungsspielräume gegeben; die Maßnahmen des Gesetzes zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums, die Beschneidung der Rechte der Fakultäten, die Einführung des "Führerprinzips", d.h. die Aufhebung der Wahlen des Rektors bzw. der Dekane usw. waren eindeutige Vorschriften und konnten nur auf informellen Wegen gemildert werden. Das wurde in Leipzig häufig praktiziert, sei es durch nachlässige Bearbeitung des Ariernachweises, durch Hervorhebung der Teilnahme am 1. Weltkrieg, politischer Verdienste, oder des sozialen Engagements eines gefährdeten Kollegen, oder z. B. auch durch informelle Beeinflussung bei der Ernennung der Dekane. Hans Freyer hat in dieser Zeit mit großem Geschick die Rolle des savant prudent eingenommen, die ja taktisches Denken, Schläue und List nicht ausschließt5. Auf der institutionellen Ebene kann man Freyer also kaum zur Gallionsfigur des Nationalsozialismus erklären. Da auch die persönliche Biographie keine Anhaltspunkte ergab, bleibt also noch sein wissenschaftliches Werk zu untersuchen. Es war hauptsächlich seine Pallas Athene. Ethik des politischen Volkes (1935), sowie seine Schriften Revolution von rechts (1931), Der Staat (1925) und seine Aufsätze zum Volksbegriff zwischen 1928 und 1934, die in der Nachkriegsrezeption als Nachweis herangezogen wurden, daß er die nationalsozialistische Ideologie vorbereitet bzw. unterstützt hätte.


Volk als Rasse oder "Volk als Tat"?
Der Volksbegriff als Krisenbewältigung der Moderne.

Es sollte nicht unbeachtet bleiben, daß Freyers Reflexionen über den Volksbegriff auf einem langfristigen wissenschaftlichen Diskurs aufbauen. Die Weiterführung von Hegels Phänomenologie des Geistes und seiner Rechtsphilosophie, die Verarbeitung von Fichtes und Lorenz von Steins Staatslehre, die Einbeziehung der Werke von Dilthey und Simmel, Max Webers politischer Soziologie und nicht zuletzt der damals höchst aktuellen Wissenssoziologie, müssen als Gegenstand einer Theorieanalyse (Üner 1992) hier ausgeklammert bleiben. Jedoch kann eine dokumentarische Skizze der wissenschaftlichen Diskurse um den Volksbegriff seit dem 19. Jahrhundert und deren Synergieeffekte mit sozialen und politischen Umwälzungen zur genaueren Bestimmung dienen, wie die Schnittpunkte von langfristigen wissenschaftlichen Diskursen mit politischen Ereignissen die Deutungen des Volksbegriffes beeinflußt haben.

Nach dem 1. Weltkrieg, als Folge des Zusammenbruchs der großen Reiche - des russischen, des österreichisch-ungarischen sowie des osmanischen - stand in ganz Europa die Diskussion um die Volksgemeinschaft im Mittelpunkt. Einerseits wurde die eigene Geschichte und Kultur, Sprache und Traditionen des jeweiligen Volksgemeinschaft aus der Zeit vor der Einbindung in die Großreiche als die eigentliche historische Identität und gemeinschaftsbindende Kraft wieder in Erinnerung gerufen; andererseits wurden aber durch Friedensverträge neue staatliche Einheiten gebildet, die wiederum unterschiedliche ethnische Minderheiten umfaßten; z.B. wurden ehemals ungarische Gebiete der neuen Tschechoslowakei oder Rumänien eingegliedert, oder deutsche Minderheiten kamen erneut zu Frankreich. Das Problem der Nationwerdung (nation building) beschäftigte das zerstückelte Europa und hat der facettenreichen Diskussion des Volksbegriffes in den zwanziger Jahren, die sich zwischen den Extremen biologisch-rassistischer Positionen einerseits und einer expressionistisch-humanistischen, oder auch sozialistischen Weltgemeinschaft andererseits bewegte, einen äußerst aktuellen politischen Gehalt gegeben. Es ist dabei zu betonen, daß diese polarisierte öffentliche Diskussion im Rahmen neuer, die jeweiligen Monarchien ablösender republikanischer Staatenbildungen stattfand, und somit die Vision einer neuen "res publica" der modernen Massengesellschaft, für die alle bisherigen historischen Beispiele als unzulänglich angesehen wurden, auch hinter diesen Kontroversen nach dem 1. Weltkrieg stand. Diese republikanische Idee wurde im kontinentalen Europa jedoch im Laufe der zwanziger Jahre zunehmend durch moderne Diktaturen6 propagiert, die sich in unterschiedlichen Varianten der Idee eines plebiszitären Führerstaates verpflichtet sahen und insgesamt als Retter der Volksherrschaft, oder der "wahren Demokratie" auftraten. Das Konzept einer biologischen Rasse oder einer ausschließlich durch Geburt bestimmten Volksgemeinschaft blieb dabei ein Außenseiterthema; wenn auch die zeitgenössische expressionistische Literatur euphorisch von "Volk" "Blut" und "Rasse" sprach, oder Hans Freyer in seiner kulturphilosophischen Staatstheorie die Heilighaltung der Rasse (1925: 153) als wichtigste Aufgabe der Macht verkündete, so waren das symbolische Exaltationen für eine durch gemeinsame Geschichte, Sprache und Traditionen übermittelte Kultur.

Man kann diese Diskussion als einen Durchbruch in das öffentliche Bewußtsein und als krisenbedingte Steigerung und Popularisierung ausgedehnter wissenschaftlicher Diskussionen aus dem 19. Jahrhundert über "Volk als Rasse" und dessen Gegenbegriff "Volk als Tat" bezeichnen7. Das Zusammentreffen von wissenschaftlichen Erkenntnissen, die Übertragung eines wissenschaftlichen Modells einer Disziplin in eine andere, und die Popularisierung der wissenschaftlichen Erkenntnisse durch Medien, soziale Bewegungen und Politik können zu unerwarteten Synthesen führen: z. B. wurde das darwinistische Prinzip der Evolution der Natur durch Selektion übertragen auf historische Prozesse als Wettbewerbsprinzip: Fortschritt durch Veredelung und Auslese der Völker; damit erschien eine Reduzierung vom kulturellen Fortschritt der Menschheit auf den der Nation gerechtfertigt. Oder es kam zu einer politische Synthese eines biologischen Rassebegriffes mit der kulturellen Herkunft, die vor allem durch den immensen wissenschaftlichen Ausbau der Philologie im 19. Jahrhundert: Slawistik, Germanistik, Romanistik, etc. ausgelöst wurde. Im Zuge der politischen Nationalbewegungen ging aus dieser wissenschaftlichen Differenzierung ein neuer Urmythos hervor: Dadurch, daß Ergebnisse vergleichender Sprachforschung,nämlich die Verflechtungen verwandter Sprachen, auf ethnische Gebilde übertragen wurden, ergaben sich aus Sprachfamilien Völkerfamilien, deren Stammesursprung nun wissenschaftlich erforscht werden sollte. Diese Suche nach dem "Urvolk" schlug sich politisch in den zahlreichen "Pan-Bewegungen" nieder - Panslawismus, Pangermanismus etc., und die damit verbundene wissenschaftliche Erforschung von Wanderungsbewegungen führte wieder zurück zum Problem der "Rasse". Deshalb konnten bei der Gründung der "Société Ethnologique" in Paris 1839 Programm und Ziele dieser Vereinigung als Elemente der Rassenforschung bezeichnet werden (Brunner u.a.1972 f., Bd. 5: 157-159), während die Ethnologie Ende 1920 als reine Kulturwissenschaft verstanden wird8.

Wenn auch der biologische Rassebegriff in den Sozialwissenschaften der Weimarer Zeit nur noch periphere Bedeutung hatte (die "Geschichte als Rassenkampf" war wissenschaftlich nicht mehr zu vertreten), so bestimmte er als Amalgam von Rasse-Urvolk-Urkultur nach wie vor die öffentliche Diskussion in Bewegungen z.B. des Zionismus, oder des Alldeutschtums, wie auch in der expressionistischen Literatur, die allesamt damit auch eine wissenschaftliche Grundlage für ihre Ziele beanspruchen konnten. Die auf den biologischen Rassebegriff konzentrierte Spezialdisziplin der Eugenik, in der die amerikanischen Humanwissenschaften die Vorreiter waren, wurde von Erneuerungsbewegungen - sowohl rechter wie linker politischer Couleurs - ebenfalls popularisiert und "voluntarisiert": die Planbarkeit des Erbes versprach Befreiung aus dem Zustand des Ausgeliefertseins an die Natur und verhieß bewußte Gestaltung - des germanischen oder auch des sozialistischen freien Menschen. Es ist wissenschaftgeschichtlich zu wenig aufgearbeitet, wie sehr die junge Disziplin der Bevölkerungswissenschaft der zwanziger Jahre in Verbindung mit der Eugenik gerade von linken Bewegungen gefördert und in die politische Arbeit einbezogen wurde. Der wissenschaftliche Referent im sozialdemokratischen sächsischen Kultusministerium, Karl Valentin Müller, in den Fächern Geschichte, Nationalökonomie und Statistik an der Universität Leipzig promoviert, verfaßte 1927 im Auftrag der Gewerkschaftsbewegung die Schrift Arbeiterbewegung und Bevölkerungsfrage, mit dem Untertitel: Eine gemeinverständliche Darstellung der wichtigsten Fragen der quantitativen und qualitativen Bevölkerungspolitik im Rahmen gewerkschaftlicher Theorie und Praxis; die Kapitelüberschriften reichen von der Gesellschaftsbiologie über Arbeiterbewegung und Rassenhygiene bis zu Siedlung und Wanderung als Lohnbestimmungsgrund.

Der mit der Idee der Planbarkeit einer Gesellschaft verbundene Voluntarismus konnte ohne weiteres mit dem Konzept des "Volkes der Tat" verschmelzen, das aus den konstitutionellen Bewegungen Anfang des 19. Jahrhunderts stammt: Das Volk, das aus dem gegenwärtigen Zustand der Unmündigkeit heraustritt und sich eine gemeinschaftlich erarbeitete Constitution gibt, die nun die Kräfte der einzelnen zu einem geschichtlichen Ziel der Volksgemeinschaft vereinigt9. In euphorische Hoffnungen steigerte sich diese Volksdiskussion in der Literatur des politischen Expressionismus der Zeit: Das Individuum ist gefallen. Das Volk steht auf, der Mensch und das Volk, beide wollen eins sein - sie wollen Menschheit sein. Die Vernichtung des Eins, um das All zu sein, ist der Sinn der namenlosen Erschütterung, die Menschen und Völker der Gegenwart umgestaltet (Lothar Schreyer); Masse wird als "wirkendes Volk" (Ludwig Rubiner) oder als "verschüttet Volk" (Ernst Toller) beschworen, aus deren Trümmern sich das Volk als höhere freie Gemeinschaft erheben wird (Üner 1981: 135-141).

Derartige Begriffssynthesen führen dazu, daß es in der wissenschaftlichen Rezeption, den Expertisen und in der Anwendung ihrer Ergebnisse, immer schwieriger wird, die Begriffe und Resultate sauber zu trennen. Auch innerhalb der wissenschaftlichen Diskussion herrschen dann die Analogieschlüsse, die Übertragung der Modelle auf andere Disziplinen vor. Nun sollte das nicht von vorneherein als Defizit bewertet werden. Um ein "Darüber-hinaus" über den bisherigen Wissensstand der eigenen Wissenschaft zu erreichen, die Verhärtungen der eingefahrenen Theorien aufzubrechen, müssen die disziplinären Grenzen überschritten werden, um neue Inspirationen aus Entdeckungen anderer Gebiete zu gewinnen und sich neuen Aufgaben aus dem politisch-sozialen Umfeld zu stellen. Gerade in Zeiten des krisenhaften Wandels wird auch ein Wissenschaftsverständnis vorherrschen, das gekennzeichnet ist durch Gegenerschaft den Traditionen der etablierten Disziplin gegenüber - die "Wissenschaft als Bewegung" (Üner 1992: 16-19), die nicht mehr die "Reform" des Bestehenden, sondern eine "Revolution" im Sinn des "Umsturzes der Werte"10 anstrebt, die eine neue "Weltsicht" und den ethischen Appell in den Vordergrund stellt. Eine ins Detail gehende logisch-analytische Diskussion ist noch gar nicht möglich, weil dem alten Wissenschaftsverständnis noch kein neues entgegengesetzt werden kann - und auch nicht soll, denn man will ja aus der Verhärtung des bisherigen Systems herauskommen. Gerade deshalb wird eine große Ausdehnung der wissenschaftlichen Bestrebungen auf andere Disziplinen und auch auf religiöse, künstlerische und soziale Erneuerungsbewegungen möglich. Die "Wissenschaft als Bewegung" ist keinesfalls als zweitrangig einzustufen, sie bleibt neben der sogenannten "Expertenwissenschaft" eine konstitutive Komponente jeder Wissenschaft; denn hohe Spezialisierung bedeutet immer auch Erstarrung und Senilität, die wieder aufgebrochen werden muß.

In diesen kaum mehr entwirrbaren Verflechtungen von wissenschaftlicher Diskussion und Aufbruchsparolen der sozialen Bewegungen sind die ersten wichtigen Arbeiten Hans Freyers zur Geschichts- und Kulturphilosophie (1921, 1923), zum Staat als Kultursystem (1925) und zum Begriff des "politischen Volkes" entstanden. Freyer ging in seinen frühen Schriften während der Weimarer Republik, anknüpfend an Hegels Volksgeist, vom Volk als kulturelle Konkretion bzw. vom Staat als Einheit der Gesamtkultur aus (1966: 129 ff.) - wie übrigens auch sein Leipziger Kollege Theodor Litt, der ebenfalls Staat und Volk als "Wesensgemeinschaft" idealisiert, in der eine Ineinssetzung von Individuum und Gemeinschaft stattfände (Litt 1919: 171 ff.). Eine unpolitische Flucht in eine höhere Realität ist bei keinem von beiden intendiert, denn sie knüpfen doch sehr dezidiert an eine die deutsche Reichsgründung begleitende politische Diskussion um die Kulturnation an: Mensch und Volk einander zugeordnet, Volk ist durch Führung geschaffen, jedoch wird - nun im Denkstil der Weimarer Reformen - Führung mehr eine Leistung der geführten Schar, als eine Leistung des Führers; je weiter der Schaffensprozeß fortschreitet, desto mächtiger wird das Werk, um so ohnmächtiger sein Täter (Freyer 1925: 108 f.). Die in den zahllosen kulturellen Erneuerungsbewegungen des Expressionismus, der Jugendbewegung, der Arbeiterkultur etc. artikulierten Konflikte zwischen Mensch und Masse, Natur und Kultur, Kultur und Geschichte, Geist und Macht, vereint Freyer als Kulturphilosoph in seinen Werken bis 1925 mit gleichem expressionistischen Pathos (Üner 1981) zu einer eher integrationistischen dialektischen Theorie der Sinnzusammenhänge, der Objektivationen der Kulturwirklichkeit, während er ab 1925, nun als Ordinarius der Soziologie11, die soziale Wirklichkeit als Handlungszusammenhang und Entscheidungsprozeß in den Vordergrund stellt. Die Schriften vor und nach 1925 können durchaus als komplementäre Analysen der gesellschaftlich-kulturellen Welt betrachtet werden. Die Komplementarität bezieht sich dabei nicht auf die Untersuchungsgegenstände - es handelt sich nicht um die Analyse von Kulturphänomenen einerseits und die Untersuchung gesellschaftlich-politischer Erscheinungen andererseits, sondern um zwei komplementäre wissenschaftliche Betrachtungsweisen ein- und desselben Lebenszusammenhangs. Bemerkenswert ist - wirkungsgeschichtlich gesehen - wie zeitgleich der Wechsel Freyers vom Lehrstuhl für Philosophie in Kiel zum Ordinariat für Soziologie in Leipzig (den er ja nicht maßgeblich beeinflussen konnte) und damit der Wechsel seiner wissenschaftlichen Aufgaben mit einer verstärkten Kulturpolitik zusammenfällt, in der man durch Erwachsenenbildung, Volksbibliotheken, Volksmusikbewegung, Arbeiter- und politische Bildung das "Werden" des Volkes voranbringen wollte.


Hans Freyers Begriff des "politischen Volkes".

Zusammenfassend kann man Freyers "Volk" als politischen Begriff - im Kontext der aktuellen politischen Turbulenzen deutlich vom Volksbegriff in seiner Kulturphilosophie bis 1925 unterschieden - als dynamische und handlungsorientierte Kategorie bezeichnen, die der gegenwärtigen politischen Gemeinschaft im revolutionären Wandel entsprechen sollte: Das "politische Volk" ist nach Freyers historischer Einordnung eine Erscheinung der Moderne, erstmals möglich geworden im Zeitalter der Aufklärung und durch die darauf folgenden Säkularisierungsbewegungen in allen Wissensbereichen der sich konsolidierenden Industriegesellschaft im 19. Jahrhundert; der Begriff "politisches Volk" steht für eine neue, nicht mehr auf organisch gewachsenen kulturellen Traditionen oder auf unveränderbaren staatlichen Institutionen begründete politische Gemeinschaft, die erstmalig in der Menschheitsgeschichte dazu fähig ist, sich von pseudo-theologischen, von oben oktroyierten politischen Heilsmythen und von überzeitlichen "ewigen Werten" des Staates zu emanzipieren, und durch gemeinschaftliches politisches Handeln sowie durch eine dieses Handeln ständig begleitende wissenschaftliche Selbstreflexion, die ihr in ihrer jeweiligen historischen Lage gemäße Staatsform hervorzubringen (Freyer 1931b, 1933). Die wissenschaftliche Selbstreflexion dieser modernen politischen Gemeinschaft hat sich nach Freyer in der Soziologie bereits institutionalisiert - eine Disziplin, die ebenfalls erst durch die Epoche der Aufklärung möglich geworden sei als "Wirklichkeitswissenschaft"12.

Das Neuartige an Freyers Begriff des "politischen Volkes" nach 1925 bestand darin, daß er den Akzent auf Tat und Entscheidung, damit verbunden den Machtaspekt der Führung, vor ihre kulturelle Leistung setzte. Dieser Begriff hat nichts mehr mit kleinen Stammesgesellschaften, oder mit kultur- und lebensweltlichen Aspekten zu tun, die für Ethnologen bedeutsam sein könnten. Freyers Volksbegriff wurde nach 1933, trotz seines Aktivismus und seiner Hervorhebung des Führertums, von den nationalsozialistischen Zeitgenossen keineswege als Artikulierung ihrer "Bewegung" begrüßt - im Gegenteil vermißte man ein biologisch-rassistisches Fundament bzw. eine Volkstheorie, die auf dem Prozeß des organischen Wachstums als Entfaltung von vorneherein gegebener Anlagen gegründet sein müsse. In einem vernichtenden internen Gutachten der NS-Kontrolle kreidete man Freyer an, daß sein Postulat, die Nation sei das Volk des 19. Jhdts, eine Historisierung und Soziologisierung des Volksbegriffes bedeute. Man schloß (vollkommen zutreffend) daraus, daß Freyer "Volk" jeweils in unterschiedlichen historischen Erscheinungen verstünde, daß "Volk" also immer neue staatliche Strukturgedanken aus sich hervorbringen könne, und folgerte, daß nach Freyers Lehre heute an Stelle des Nationalsozialismus auch der Marxismus die Lage beherrschen könnte. Diese Historisierung des Volksbegriffes und darüberhinaus Freyers dezidierte Parteinahme für die idealistische Geschichtsphilosophie "kann in diesem Zusammenhang nur so gedeutet werden, daß eine auf die Biologie gegründete nationalsozialistische Geschichtsphilosophie in ihrer Möglichkeit und Notwendigkeit bestritten wird. Die Schrift ist als marxistisch schärfstens abzulehnen". (Archiv IfZ München 1933).

Die Vorstellung des Volkes als organisch gewachsene Kultureinheit, wie etwa Othmar Spann sie zur selben Zeit vertreten hat, konnte nach Freyers Ausführungen höchstens für ständische Gesellschaftsformen vor der Aufklärung und für das idealistische Konzept der Nationalkultur gelten, die eigentlichen Problem der modernen Gesellschaft im Umbruch würden darin übergangen: daß erstens das ganze Gewebe der Realbedingungen und Realfaktoren ausgeklammert bleibe (Freyer 1930: 76); daß zweitens die heute erreichte Individuation der Individuen geleugnet werde, die bei aller "Gliedhaftigkeit eine unverlierbare Existenz" beanspruchen würde (und um der konstruktiven Entwicklung der Gesellschaft auch beanspruchen solle) (Freyer 1930: 72); daß drittens in Spanns universalistischem Modell der gegliederten Ganzheit der Charakter der Offenheit der Geschichte geleugnet werde, da er damit Entwicklung nur als Emanation von bereits Angelegtem verstehen kann: "Jeder Emanatismus entwertet die konkreten Unterschiede und die konkreten Beziehungen innerhalb der Erscheinungswelt zugunsten des gemeinsamen Bezugs aller Erscheinungen auf die absolute Mitte. Jeder Emanatismus entwertet insbesondere die zeitlich-geschichtlichen Veränderungen der Wirklichkeit zugunsten ihrer metaphysischen Rangordnung [...]; die geschichtliche Veränderung wird zur bloßen Oszillation. Die Wirklichkeit ist von Anfang präformiert; [...] was sie außerdem zu sein scheint, ist Verfall oder Trug" (Freyer 1929: 235).

Freyers methodologischer Grundsatz - die Historisierung aller, auch der allgemeinsten soziologischen Strukturbegriffe (1931a: 124-129) - ist verbunden mit einem neuen Geschichtskonzept der Emergenz, das im Gegensatz zu den emanatistischen oder evolutionären Entwicklungsmodellen des 19. jahrhunderts den Aspekt der Variation und Kontingenz in den Vordergrund stellt: In jeder Situation sind mehrere Möglichkeiten der Weiterentwicklung angelegt, und eine davon wird durch Handeln aktualisiert. Handeln bedeutet immer auch Entscheidung, denn es kann niemals alles aktualisiert werden, was in der Latenz angelegt ist. Das bedeutet auch, daß die gegenwärtige Situation niemals vollständig aus der vergangenen erklärt werden kann: es kann Entwicklungsbrüche, Gabelungen und Umwälzungen geben (Üner 1992: 49 ff.). Dieses Geschichtsmodell der Diskontinuität, das die schöpferische Aktualisierung durch die handelnde Gemeinschaft hervorhebt, wurde in der Leipziger Geschichts- und Sozialphilosophie bereits seit Mitte des 19. Jahrhunderts (Fechner, Wundt, Lamprecht) vorbereitet und von Hans Freyer, Schüler von Karl Lamprecht und Wilhelm Wundt, weiter entwickelt. Es ist theoretische Grundlage sowohl von Freyers politischen Schriften um 1933, als auch von Freyers Überwindung einer evolutionären Entwicklungsgeschichte zugunsten einer modernen sozialwissenschaftlichen Strukturgeschichte nach 1945 (Schulze 1989: 283 ff.)

Hans Freyer sieht seine politische Gegenwart nach dem Zusammenbruch des alten Europa im 1. Weltkrieg in einer Umwälzung, die dem Anbruch der Moderne nach der französichen Revolution vergleichbar ist, und in der sich die politische Gemeinschaft völlig neu zu bestimmen hat. Freyer ist also durchaus ein Theoretiker der Revolution, wie Rammstedt hervorhebt. Nur legt Freyer die Epochenschwelle nicht auf den Zeitpunkt 1933, sondern auf den Anbruch der industriellen Gesellschaft im 19. Jahrhundert mit ihren proletarischen Aufständen, der "Revolution von links", historisch gebunden an die Klassengesellschaft des 19. Jahrhunderts; Akteur war damals das Proletariat, das sich aus der materialistischen Entfremdung zu emanzipieren suchte. Nun, in der Gegenwart der Weimarer Republik, kündigt sich für Freyer die Antithese an: eine "Revolution von rechts" (1931b), die keineswegs gegen die Revolution von links gerichtet ist, sondern im Gegenteil diese im Sozialstaat der Bismarckzeit liquidierte, (26 f.), zu einer selbstläufigen Dialektik der Produktionsverhältnisse irrtümlich umgedeutete (10 f.) und zu einem Bekenntnis zur industriellen Welt umformulierte (41) Revolution dialektisch weitertreiben und vollenden soll; gerade die Eingliederung des Proletariats in das System der Industriegesellschaft habe die neue revolutionäre Kraft erzeugt (37). Akteur sei jetzt nicht mehr das Proletariat, das seine materiale Deprivation zu überwinden suchte, sondern das "politische Volk", das jetzt um die vorenthaltene politische Emanzipation kämpft und "die Geschichte des 20. Jahrhunderts freimachen" wird (5).

Nicht dezidiert genannte zeitgeschichtliche "Folie" Freyers war dabei sicher auch die russische Oktoberrevolution 1917, die weltweit mit Faszination betrachtet wurde. Die Sowjetunion verzeichnete in diesen Jahren erstaunliche industrielle Fortschritte, erschien 1931 als einzige politische Macht unbehelligt von der weltweiten Wirtschaftskrise und hat als Modell und Alternative gedient bei den Umstürzen der liberalen Demokratien in fast allen europäischen Staaten (Hobsbawm 1995: 99f.) In dieser Zeit erfolgte auch in der Sowjetunion eine Wendung der politischen Ziele von der sozialistischen Internationale zur Respektierung der nationalen Einheiten. Des weiteren erschien ein Jahr vor Freyers Revolution von rechts die "Theorie der permanenten Revolution" von Leo Trotzki (1930); es ist kaum von der Hand zu weisen, daß Freyer auch dazu eine Entgegnung intendierte. Freyer schließt sich außerdem einer damals weit verbreiteten öffentlichen Kritik an; den Parteien der Weimarer Republik wurde nicht nur von den Konservativen, sondern auch von der politischen Linken vorgeworfen, sie wären mit ihren Programmen im weltanschaulichen Gedankengut des 19. Jahrhunderts steckengeblieben und daher unfähig, die gegenwärtige Gesellschaft im Umbruch zu repräsentieren und deren Ziele politisch umzusetzen.

Freyers "politisches Volk" ist also ein revolutionäres Volk: "Nachdem die Gesellschaft ganz Gesellschaft geworden ist, alle Kräfte als Interessen, alle Interessen als ausgleichbar, alle Klassen als gesellschaftliche notwendig erkannt und anerkannt hat, erscheint in ihr dasjenige, was nicht Gesellschaft, nicht Klasse, nicht Interesse, also nicht ausgleichbar, sondern abgründig revolutionär ist: das Volk" (1931 b: 37). Eine berühmte dialektische Formel von Karl Marx aufnehmend, versteht Freyer das "Volk" als das "gründliche Nichts, von der Welt der gesellschaftlichen Interessen aus gedacht, denn in dieser Welt kommt es nicht vor; und das gründliche Alles, wenn man nach der Zukunft fragt, die dieser Gegenwart innewohnt" (44). Das Recht einer Revolution kann niemals durch eine Analyse der Stärkeverhältnisse bewiesen werden - "man kann ein Nichts nicht messen, und ein Alles auch nicht" - es gilt nur "Prinzip gegen Prinzip zu stellen: das Prinzip Volk gegen das Prinzip industrielle Gesellschaft" (44). Mit derartig polarisierender Dialektik wird immer eine genauere Definition, was nun "Volk" im Gegensatz zu "Gesellschaft" bedeuten soll, umgangen, ja vielmehr würde eine solche Definition für Freyer bereits den gefürchteten Rückfall in längst überholte wissenschaftliche Konzepte bedeuten; eine revolutionäre Entwicklungsdynamik kann nicht mit altbewährten Begriffen erfaßt werden. So muß Freyer das "aktive Nichts" als neues Prinzip der Geschichte vornehmlich mit negativen Bestimmungen einkreisen:

- Das "politische Volk" ist nicht Nation, wie das 19. Jahrhundert Volk verstanden und verwirklicht hatte, als Begriff, der "den Stolz auf das geschichtlich Erreichte, die Gewißheit des geschichtlichen Bestands und irgendeinen Willen zur Weltgeltung im zugemessenen Raum" versinnbildlichte. "Das Bewußtsein eines unendlich reichen geistigen Gemeinbesitzes schwingt mit. Alle Bildung schöpft aus diesem Besitz, und das Bekenntnis zu ihm verpflichtet zum treuen Festhalten an der geprägten geistigen Art, die ihn erwarb. Dieser Begriff des Volkes ist in der neuen Lage der Gegenwart überwunden." (51).

- Das "politische Volk" hat mit "Urvolk" ebenfalls nichts zu tun. Eine tiefer als der Begriff der Nation liegende Schicht: Volk als "Urkräfte der Geschichte [...], Geister, die der Natur ganz nahe waren[...], ein unmittelbares Dasein [...], Volk als Ahnungen und Verkündigungen [...], bleiben für Freyer lediglich als unspezifische Sedimente gültig und sollen als solche in den neuen Begriff des Volkes eingehen. "Nur ist zu sorgen, daß nicht auch diese Schicht als unverlierbarer Besitz und als naturhaft-selbstverständliches Sein erscheine"; denn dann wäre die Wirklichkeit die ungetrübte Darstellung dieser zugrundeliegenden Potenz, und Volk wäre "so etwas wie eine Weihnachtsbescherung" (51 f.), auch hier erlaubt Freyer keinen theoretischen Emanatismus.

Die positive Bestimmung als neues Prinzip der Geschichte ist auffallend vage - Freyer beschränkt sie auf Volk als "Sinn, der in der industriellen Gesellschaft aufgeht", als "lebendiger Kern, um den sich die Mittel des industriellen Systems zu einer neuen Welt zusammenfügen werden, wenn es gelingt sie zu erobern" (1931b:52); da vom neuen Prinzip Volk her eine totale Neuordnung der Welt erfolge, sei es nicht möglich, die Struktur dieses "werdenden Volkes" jetzt schon genau zu bestimmen. Gleichwohl stellt er der Soziologie drei konkrete Aufgaben: Es muß gefragt werden "erstens nach der Struktur des herrschenden Systems, innerhalb dessen sich die Revolution bildet; zweitens nach den Kräften, die sich an dem neuen Gegenpol aufladen, nach ihrer Herkunft und nach der Notwendigkeit, mit der sie ihm zuströmen; und drittens nach der Richtung, die diesen Kräften und ihrer Revolution innewohnt" (53). Die Richtung benennt er: "von rechts", jedoch wiederum nur negativ bestimmend, daß Volk zum einen keine Gesellschaftsklasse wäre, daß also rechts nicht die Fortsetzung der Revolution von links mit anderen Mitteln sein könne; zum anderen könne rechts auch nicht Reaktion heißen. Freyer nimmt den Begriff der Revolution beim Wort, wenn er immer wieder hervorhebt, daß die Revolution quer durch alle bisherigen Interessengegensätze hindurchbräche, weil hier ein umfassendes Freimachen aus dem alten Gesamtsystem und eine totale Umordnung nach einer neuen Generalformel stattfinde (54). Seine positive Definition des Schlagwortes "von rechts" ist ebenso vieldeutig: Emanzipation des Staates. Der Staat, der in der Epoche der industriellen Gesellschaft immer nur Beute, bestenfalls vorsichtiger Schlichter der Wirtschaft war, wird in der Synthese mit dem politischen Volk zum ordnenden Prinzip gegen die Industriegesellschaft. Auch von diesem neuen Staat gibt Freyer keine politische Struktur oder Ordnung an, aber sehr deutlich dessen Bedeutung als realer Faktor im Vollzug der Revolution: Die Revolution von rechts läuft über den Staat, nicht in dem Sinne, daß eine unterdrückte Gesellschaftsklasse sich des Staates taktisch bemächtige, um ihre gesellschaftlichen Interessen durchzusetzen; vielmehr das Volk wird Staat, erwacht zu politischem Bewußtsein, und als "politisches Volk" wird es zum selbständigen Prinzip gegen die wirtschaftlichen Interessen der Industriegesellschaft, ist also die neue, alles umordnende Generalformel (61).

Es ist ein Modell des plebiszitären Führerstaates13, die Freyers Arbeiten zum "politischen Volk" bis 1934 bestimmt. Ganz im Gegensatz dazu steht seine Schrift Pallas Athene: Ethik des politischen Volkes 1935, die bestenfalls eine Ethik des totalen Ausnahmezustandes genannt werden kann; mit dem "politischen Volk" im obigen Sinn hat sie nichts mehr zu tun. Dies erscheint nur noch als "Block des Volkes", an dem der Staatsmann wie ein Bildhauer arbeitet (1935: 98). Die Maximen dieser Ethik sind nicht mehr generalisierbar, vielmehr werden "Ethik" und "bürgerliche Moral" gegeneinander ausgespielt, wird dem "Gewissen aus der Welt des kleinen Mannes" ein Gewissen "mit politischem Format", eben Pallas Athene, die "Göttin der politischen Tugend" gegenübergestellt (30 f.), erinnert der Aufbruch in seiner Doppeldeutigkeit fatal an Vergewaltigung. Das folgende Freyersche Zitat reicht von der magischen Beschwörung bis zum blanken Zynismus und läßt kaum einen Interpretationsspielraum offen. "Immer handelt es sich darum, im Leben [...] ein neues magisches Zentrum aufzurichten, auf das die Menschen nun hinstarren, welcher Segen von ihzm komme oder welches Unheil. Das ist eine Vergewaltigung der menschlichen Natur, und die Menschen entgleiten der Politik immer wieder, weil sie mit ihren eigenen Dingen so viel zu tun haben. Aber die Leistung der politischen Tugend besteht darin, daß diese Vergewaltigung immer aufs neue gelingt, so gründlich gelingt, daß die Erde nicht bloß Wohnhäuser und nützliche Anstalten, sondern Tempel, Burgen und Paläste trägt. Aus dem arbeitssamen und verspielten Menschenwesen [...] eine Heldenschar zu machen für ferne Ziele, ihm, das gegen diesseitige Autoritäten im Grund skeptisch ist [...], den absoluten Glauben an die sichtbare Macht aufzuzwingen, ihm das so gerne lebt, den freiwilligen Tod zu versüßen , ihm eine neue Ehre einzupflanzen, die nur Opfer kostet, kurz diese weiche Materie in ein hartes Metall zu verwandeln, mit dem man stoßen und schlagen kann - das ist die merkwürdige Alchimie, die immer neu erfunden werden muß, wenn politisch etwas geschehen soll" (50 f.). Freyer scheint hier nichts weniger als sein eigenes Werk und seine Gelehrtenkarriere zu verraten, denn Die "Ethik des Willens" ist vor allem auch gegen die theoretische Vernunft gerichtet, die Ausschau nach dem Ganzen hält, und die Begründung sucht, damit aber die Tat begrenzen könnte. (21 f.). Aus der kritischen Sicht der Emigranten wurde diese Kombination von Desperado-Mentalität und hochgepriesener Fahnentreue mit den Verbrechen des Dritten Reiches in Verbindung gebracht - René König und Herbert Marcuse haben die politischen Konsequenzen klar herausgestellt (König 1975: 135 f., Marcuse 1936).

Dennoch ist nicht zu übersehen, daß es auch in dieser Schrift eine zweite Sichtweise gibt, aus der bereits die Enttäuschung über einen "zweitrangigen Principe", über die Geistlosigkeit der an die Macht gelangten nationalsozialistischen Bewegung und das Denken in "Räuberkategorien" zu entnehmen ist. "Es ist armselige Romantik zu glauben, daß in der politischen Welt der Instinkt den rechten Weg fände, und daß der Staatsmann um so genialer sei, je mehr er sich auf sein Gefühl statt auf seinen Verstand verlasse [...]" (112). Und eines erläßt die Göttin der politischen Tugend ihren Lieblingen nicht: "daß ihre Handlungen Adel. Reinheit und die Spannung des guten Gewissens haben [...] Wer beim ersten Schritt, den er aus der Welt der bürgerlichen Arbeit heraustut, dem Kitzel der Zwecke, die die Mittel heiligen, verfällt und sich höchst politisch dünkt, wenn er aus großen Niederträchtigkeiten eine kleine Intrige zusammensetzt, beweist damit nur, daß er lieber in der Welt der bürgerlichen Arbeit hätte bleiben sollen. [...] Ein Principe aus zweiter Hand ist immer nur eine traurige oder je nachdem eine lächerliche Figur" (30 f.) - das konnte kaum ein Aufruf zur Konsolidierung der 1935 gegebenen Verhältnisse sein. Eine Deutung dieser Schrift, die sich nicht zu einem konsistenten Bild zusammenschließt, ist ohne Nachweis der Adressaten, die Freyer ansprechen wollte, nicht möglich. Als Aufruf zur nationalsozialistischen Revolution kam sie 1935 um einige Jahre zu spät. Der von Freyer ursprünglich gewählte Untertitel Ethik der konservativen Revolution, der vom Verleger Niels Diederichs als zu brisant korrigiert wurde (Universitätsarchiv Jena), nennt allerdings die Adressaten. War die Schrift Antwort auf die Mordaktion der Gestapo und SS am 30. Juni 1934 an Ernst Röhm, Schleicher, Gregor Strasser und anderen Feinden, derer sich Hitler damit entledigt hatte - war sie konzipiert, um eine "Zweite Revolution" einzuleiten? Dafür spricht Freyers Stil, der mehr einem Kreuzzugsaufruf als einer ethischen Abhandlung entspricht, aber es gibt bisher keine Nachweise einer Verbindung Freyers zu dieser Gruppe. Freyer hatte nie Sympathien für die Wehrverbände der Parteien während der Weimarer Republik gehegt, und so wird er wohl kaum eine Unterstützung des Machtkampfes der SA bzw. Ernst Röhms gegen die SS intendiert haben. Welche konkrete politische Bewegung er mit der "Pallas Athene" zur Aktion aufrufen wollte, kann zur Zeit noch nicht nachgewiesen werden.

Diese Schrift stellt einen paradigmatischen Fall dar für die anfangs erwähnten "Abwehrmechanismen" des geistigen Schaffens in totalitären politischen Systemen. Als heimliche Botschaft einer Verschwörergemeinschaft konnte sie nur von den Eingeweihten entziffert werden. Sowohl René König (1975) als auch Herbert Marcuse (1936), die Deutschland verließen, haben sie als Fanfare für den Nationalsozialismus gelesen, und auch alle nicht zum engsten Kreis um Freyers zählenden Kollegen konnten sie nur als solche einschätzen. Die Schwierigkeiten der Interpretation liegen offenbar darin, daß hier Innen- und Außenperspektive weit auseinandertreten. Aus der Innenperspektive der Beteiligten verstanden, stellte die reine Willensethik mit ihren Kategorien "Tat" und "Entscheidung", die schon bei Fichte gewissermaßen als Kategorien des Widerstands literaturfähig gemacht worden sind, keineswegs eine Äußerung der politischen Reaktion oder eine Festschreibung der bestehenden Verhältnisse dar, sondern konnten die noch aufrechterhaltene Hoffnung in die Kraft des politischen Volkes oder eines echten politischen Führers beschwören. Das Verhängnisvolle daran ist, daß sowohl NS-Gegner wie NS-Kämpfer in der gleichen Umwelt an die gleichen Adressaten die gleiche Sprache sprechen mußten. Solange ihre Schriften noch in Deutschland publiziert wurden, konnten auch die Gegner ihre Botschaften nur in den gleichen Allegorien verstecken. Aus der Außenperspektive, entweder in der Emigration oder im zeitlichen Abstand, verliert man den Sinn für den zeithistorischen Kontext, sieht man keine Notwendigkeit, in Allegorien zu sprechen - also kann den Botschaften nur ihr aktueller Sinn, von außen gesehen, unterstellt werden; und der ist eben Aktivismus, Gewalt und Diktatur.

Für die Wirkungsgeschichte war Freyers Pallas Athene zweifellos die verhängnisvollste Schrift seines Gesamtwerkes, denn sie bildete die Folie, auf die seither Freyers Gegner sowohl seine frühen, wie auch die späteren Werke projizierten. Es wurde nicht mehr erkannt, daß Freyers Pallas Athene aus der werkimmanenten Entwicklung vollkommen ausbricht, daß er, wie oben dargelegt, zur gleichen Zeit die Reziprozität von Herrschaft und Volk konzipiert hat und die Aufgaben der Wissenschaft, entgegen der Pallas Athene, mit Verve vertreten hat. Deshalb soll nun die Betrachtung wieder zu dieser zurückkehren.



Die Stunde der Soziologie.

In der revolutionären Gegenwart, die diese neue Selbstfindung, Willensbildung und geschichtliche Leistung des Volkes verlangt, schlägt die Stunde einer qualitativ völlig neuen Wissenschaft, die Stunde der Soziologie: Im Freyerschen Konzept ist sie als bewußte wissenschaftliche Lebensgestaltung, Planung und Sozialtechnik der Nachweis dieses historischen Umschlags zu einem neuen Zeitalter der menschlichen Bewußtwerdung. Allerdings hat Freyer diesen Umschlag zur wissenschaftlichen Bewußtwerdung nicht auf den politischen Umbruch 1933 bezogen, wie seine Kritiker ihm vorwerfen (u.a. König 1987), sondern bereits in der Epoche der Aufklärung gesehen: Durch die emanzipatorischen geistigen Strömungen der Aufklärung ist Soziologie als Nachdenken der Gesellschaft über sich selbst erst möglich geworden - sie ist seitdem als "Wirklichkeitswissenschaft" systematisierte gesellschaftliche Selbsterkenntnis. Für seine Gegenwart formulierte Freyer daraus die große Erwartung, daß die Soziologie auch jetzt als Medium der politischen Emanzipation oder "Volkwerdung" fungiert; denn, indem sie mit der kontinuierlichen Selbstanalyse auch die ständige Neuformulierung gesellschaftlicher Ziele leistet und so das Substanzielle eines Zeitalters ausdrückt, treibt sie die Veränderungsprozesse als gesellschaftsimmanente Dialektik weiter und kann also den Hiatus zwischen Theorie und Praxis überbrücken (Freyer 1930: 300-307). Die Kluft zwischen Idealdialektik und Realdialektik ist in Freyers Wirklichkeitswissenschaft aufgehoben (Üner 1992: 196-214).

Freyers logische Grundlegung dieser radikalen Neubestimmung der Soziologie: "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" (1930) erschien im gleichen Jahr wie die deutsche Erstveröffentlichung der Frühschriften von Karl Marx und hat nicht nur im mühsamen innerwissenschaftlichen Diskurs um die Gegenstandsbestimmung der Soziologie Aufsehen erregt, sondern auch die unterschiedlichsten weltanschaulichen Kontroversen ausgelöst. An der zeitgenössischen Rezeption Freyers fällt auf, daß nur von zwei Rezensenten, dem Philosophen Josef Pieper (1931) und dem Soziologen Karl Mannheim (1932: 40), eine Beziehung von Freyers Konzeption der Soziologie als gesellschaftliche Selbstreflexion zu den theoretischen Auseinandersetzungen in der damaligen Disziplin hergestellt und dabei auch die theoretischen Kurzschlüsse aufgedeckt wurden. Alle anderen beschränkten sich darauf, sie daran zu messen, ob sie mit den eigenen weltanschaulichen Überzeugungen übereinstimmte oder nicht. Und so reicht die zeitgenössische Kritik an Freyer von "Kryptomarxismus" bis zu "Überfaschismus" (Üner 1992: 61 ff.). Der Heidegger-Schüler Herbert Marcuse begrüßte Freyers Buch als die einzige radikale theoretische Selbstbesinnung überhaupt, die seit Max Weber nicht mehr aufgenommen worden wäre (Marcuse 1931).

Dieses "reflexive Paradigma" der modernen Wissenschaft ist nicht alleine Freyers Domäne; er teilt es mit den zeitgenössischen Richtungen der Phänomenologie, der Lebensphilosophie, der Existenzphilosophie, oder auch mit den technikphilosophischen Visionen der Befreiung des Menschen von der Naturgebundenheit zu einer durch die moderne Technik möglich gewordenen Selbstgestaltung (N. Berdjajew, F. Dessauer). Helmuth Plessner hat die moderne menschliche Bewußtwerdung für die damals mit ähnlichem Anspruch einer neuen Leitwissenschaft auftretende Philosophische Anthropologie prägnant zusammengefaßt in der Formel: "Der Mensch ist sich selber nicht mehr verborgen, er weiß von ihm, daß er mit ihm, welcher weiß, identisch ist." (Plessner 1981: 401). Der Gedanke der wissenschaftlichen Selbsterkenntnis blieb auch keineswegs der philosophischen Reflexion vorbehalten; er lieferte eine äußerst publikumswirksame Begründung für die Institutionalisierung der neuen sozialwissenschaftlichen Disziplinen - von der Soziologie über die politischen Wissenschaften bis zur philosophischen Anthropologie - im Zuge der Universitätsreform der zwanziger Jahre. Die diesbezüglichen Stellungnahmen des Soziologen Karl Mannheim (1932) oder des preußischen Kultusministers Carl Heinrich Becker (1925) stützen sich gleichermaßen auf die durch die Sozialwissenschaften möglich gewordene Selbsterkenntnis der politischen Gemeinschaft, und die Förderung dieser Selbstreflexion wird als wichtigste öffentliche Aufgabe, insbesondere der Volksbildung, deklariert, um eine mündige politische Willensbildung möglichst aller Bürger in Gang zu bringen.

Freyers Wirklichkeitswissenschaft und das Wissenschaftsverständnis seines damaligen Leipziger Schüler- und Kollegenkreises waren von einem lebenspraktischen Pathos getragen und konnten von weltanschaulichen Erneuerungsbewegungen aller Couleurs als Lebensphilosophie übernommen werden, denn sie boten jedem das verheißungsvolle Ziel der "Selbstfindung". Freyer verfaßte populärphilosophische Aufrufe, die den unterschiedlichsten weltanschaulichen Gruppierungen zur Selbstreflexion verhelfen sollten. Er selbst war dabei nie Mitglied einer politischen Partei, nie organisatorisch aktiv in einer der weltanschaulichen Erneuerungsbewegungen, und erfüllte damit beispielhaft die von ihm charakterisierten Rolle des "Führers" als Medium des Volkswillens, der dem "politischen Volk" nur so weit Rat geben darf, als es zu seiner Selbstfindung bedarf.

Dieses aktivistische und existentialistische Konzept hat Freyer selbst nicht lange aufrechterhalten; schon 1933 verschwindet der Begriff "Wirklichkeitswissenschaft" in Freyers Schriften, und es deutet sich eine Überwindung des radikalen Aktivismus an durch den Begriff der Planung, die nur langfristig möglich ist und eine stabile politische Macht voraussetzt, welche jedoch nach wie vor durch den Gemeinschaftswillen getragen sein muß (Freyer 1987). Herrschaft stellt erstens ein reales Machtverhältnis dar, das immer auf der Legitimation durch die Teilnehmer beruhen muß; zweitens kann Herrschaft nicht beschränkt werden auf "Repräsentation" i.Sinne einer "Spiegelung" oder Abbildung einer Gemeinschaft, denn auch in der Willensgemeinschaft sind die Inhalte nicht immanent vorgegeben, sondern sie müssen erst in der Auseinandersetzung und in fortlaufender Integrationsleistung geschaffen werden. Das "politische Volk" ist eine "geschichtliche Ganzheit, deren Integration niemals abggeschlossen ist (1987: 39 f., 70).

Aufschlußreich zur Wirkungsgeschichte Freyers ist eine Arbeit seines zeitweiligen Kollegen und Dozenten am Freyerschen Institut, des Staatsrechtlers Hermann Heller, dessen Staatslehre (1933) ohne Freyers "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" nicht entstanden wäre. Auch Heller geht mit dem Prinzip der Aktualisierung den Antagonismus von Staat und Volk an: Eine durch Praxis der Volksgemeinschaft ständig hervorgebrachte Rechtsanschauung soll als "Imperativ einer Gemeinschaftsautorität" die Staatsakte determinieren, um zu einer Integration von Staat und Gesellschaft zu kommen. Auch er will diese Integration mit Hilfe der Soziologie herbeiführen - sie ist, wie bei Freyer, sowohl Wissenschaft als auch Selbstreflexion einer Gemeinschaft und politische Ethik. Hellers Arbeit, die übrigens zur Programmschrift der SPD der Nachkriegs-Bundesrepublik erkoren wurde, macht deutlich, daß das Leipziger Theorem der politischen Praxis oder Aktion des Volkes - im Zusammenwirken mit anderen Einflußfaktoren und ohne existentialistisches Pathos des "Werdens" - wissenschaftlich durchaus ergiebig sein konnte.

Die Wendung zum Politischen - von der Teleologie zur Teleonomie.

Nimmt man Freyer hinsichtlich der konkreten Aufgaben der Soziologie beim Wort, so vermißt man in der radikal polarisierten Revolutionsdialektik sowohl eine genauere Analyse der Strukturen wie der politischen Prozesse. In den Arbeiten zur Soziologiegeschichte (u.a. Rammstedt 1986: 26ff.), wird übereinstimmend festgestellt, daß die Sozialwissenschaftler allesamt Schwierigkeiten hatten, die Ereignisse um 1933 angemessen zu erklären. Die zeitgenössische Soziologie konnte den Umbruch weder als soziale noch als politische Revolution kennzeichnen; eine Deutung im Sinne einer vorübergehenden Abweichung von normaler Entwicklung mußte ebenfalls ausgeschlossen werden; auch eine Begründung aus ökonomischen, sozialen oder politischen Einzelfaktoren konnte diese Krise nicht angemessen erklären. So blieb für die im Geschehen selbst verstrickten Gelehrten im allgemeinen nur eine geschichtsphilosophische Deutung, die nicht nur bei Freyer stark mythologische Züge bekam, die jedoch innerhalb des Freyerschen Systems eine theoretische Begründung erfährt: Aufbauend auf seiner bereits erwähnten Postulierung, daß soziologische Begriffe immer historisch gebunden, also wissenschaftlicher Ausdruck einer konkreten historisch verortbaren Gesellschaft sein müßten, ergibt sich für die Soziologie die Aufgabe der kontinuierlichen Reflexion über den "historischen Ort" der gegenwärtigen Gesellschaft - insofern sind für Freyer Geschichtsphilosophie und Soziologie überhaupt nicht voneinander zu trennen (eines der zahlreichen Postulate, die Freyer mit der Frankfurter Schule verbindet). Nun muß insbesondere in einer Epoche des krisenhaften Wandels die geschichtsphilosophische Reflexion in der Gegenwart abbrechen, um nicht wieder den Fehler der Extrapolierung von Strukturen aus der Vergangenheit in die Zukunft zu begehen - im Umbruch muß die Zukunft offen bleiben, denn hier ist in extremem Maße "der Hiatus zwischen Gegenwart und Zukunft nicht durch dinghafte Entwicklung, sondern durch den Willen überbrückt [...], ist freie menschliche Praxis" (1930: 307).

Der kritische Punkt an Freyers Konzeption des "politischen Volkes" ist nicht, daß Freyer damit eine bestimmte politische oder weltanschauliche Präferenz bewiesen und unterstützt hätte; Zeitgenossen, die ähnliche Positionen zu Volk und Führung vertreten haben, haben sich den unterschiedlichsten politischen Lagern verpflichtet gefühlt. Das Problem bei Freyer liegt in seiner theoretischen Konzeption begründet, es liegt in der radikalen Offenheit seines theoretischen Systems, in dem "Aktualisierung" und "Wille" wohl die Annahme einer unilinearen Entwicklung korrigieren können, dabei aber zum Allheilmittel gegen jede weltanschauliche oder auch wissenschaftliche Vorbestimmung hochstilisiert werden. Für Freyer ist es zwar Aufgabe der Soziologie, den geschichtlich gültigen Willen zur Veränderung zu eruieren; das ist ganz im Sinne einer wissenschaftlichen Ethik gedacht, bleibt jedoch eine nichtssagende Formel, solange die "Veränderung" alles meinen kann: Volks- oder Führerwille, Bestätigung, Überwindung oder Zwang. Das reflexive Paradigma der gesellschaftlichen Selbsterkenntnis und Selbstgestaltung hat sich als theoretische Sackgasse erwiesen, Freyers Logik der "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" und auch sein Begriff des "politischen Volkes" enden so im Dezisionismus und vor allem in der Heilsgewißheit des selbstreferentiellen Systems, in der sich ein Urvertrauen auf eine eigenläufige Entwicklungsgesetzlichkeit doch wieder einschleicht: in Freyers selbstreferentiellem System kann das Volk immer nur sich selbst zum Ausdruck bringen.

In Verbindung mit Freyers Wendung zum "Politischen" zwischen 1931-35 und seiner Konzeptionen des Staates und des politischen Volkes steht seine theoretische Neukonzeption des Idealismus. Das hat sowohl die nationalsozialistische ideologische Kritik wie auch "Kritische" Sozialwissenschaftler nach 1945 dazu bewogen, Freyer als einen unzeitgemäßen Romantiker oder den ewig Jugendbewegten einzuordnen und ihn als Protagonisten des deutschen Traumes und Irrweges der Nationwerdung zu lesen. Daß er die kollektiven Hoffnungen dieser Zeit mitgetragen hat, ist unbestritten; deshalb wurde in dieser Darstellung bewußt auf den politischen Kontext dieser Jahre Bezug genommen. Festzustellen wäre dabei aber auch, wogegen seine Schriften gerichtet waren, welche theoretischen Annahmen überwunden werden sollten. Nach 1935 benützt Freyer den Denkweg des "politischen Idealismus" von J. G. Fichte als Kritik am aktuellen politischen Verfall; seine Ablehnung des idealistischen Glaubens an die universelle Immanenz der Inhalte und an die Möglichkeit ihrer deduktiven Entwicklung, des damit verknüpften Vernunftoptimismus und der Logisierung der Wirklichkeit (1987: 50-57; 1986: 129-150), ist nicht zuletzt eine Absage an alle zeitgenössischen chauvinistischen Verstiegenheiten, daß das "deutsche Wesen" nun endlich "zu sich selbst" kommen werde. Freyer wählt diesen Weg aber auch aus rein wissenschaftlichen Gründen, weil die idealistische Philosophie die einzig verfügbare komplexe "Systemtheorie" seiner Zeit darstellte.

Rammstedt widerlegt unbeabsichtigt seine eigene Einordnung Freyers als Deutschen Soziologen (im Sinne der Verabsolutierung einer aktivistischen Denktradition der Soziologie als Selbstgleichschaltung mit dem Nationalsozialismus) in seiner durchaus zutreffenden Charakterisierung des Freyerschen "politischen" oder "werdenden Volkes", die er eng an Freyers Definitionen darlegt, und die einen Übergang Freyers vom deutschen Idealismus zu ersten systemtheoretischen Konzepten deutlich werden läßt, was Rammstedt offensichtlich nicht bewußt geworden ist(Rammstedt 1986: 29 ff.; Freyer 1933).

Freyers "Volk im Werden" wird gekennzeichnet als noch in Bewegung stehendes, als nicht vollendete Tatsache, sondern Forderung; Volkwerdung bedeute also erstens die Herausbildung eines kollektiven Selbstbewußtseins und einen willentlichen Wandel. Freyer hat mit dem willentlichen Wandel nicht nur den Glauben an die selbstläufige Entfaltung eines "deutschen Wesens" zurückgewiesen14, sondern der NS-Ideologie des durch natürliche Gaben auserwählten Herrenvolkes einen "prozessualen" Volksbegriff entgegengestellt. Volkszugehörigkeit ist eine durch freiwillige Verpflichtung erworbene Eigenschaft - in Freyers historisch camouflierter politischer Theorie nach 1939 über Friedrich den Großen15 heißt es: "Preuße kann man nur werden, und so ist Preußentum [...] ein Weg, an dessen Anfang[...] eine Entscheidung steht und in dessen Vollzug [...] der eingeübte Wille, die erfahrene Pflicht stark mitwirkt" - und Freyer bezeichnet die unter Friedrich dem Großen zugewanderten Wahlpreußen, die sich freiwillig dem "Preußentum" verpflichtet haben, als die eigentlichen Kulturträger Preußens (1986 b: 65 f.).

Zweitens bedeutet Volkwerdung politische Gestaltung. In den Artikeln zur "Volkwerdung" bis 1934 wird die politische Gestaltung mit Schlagworten eher beschworen, im Führertum und im "geschichtlichen Werk" des gegenwärtig beginnenden "sozialistischen Gestaltungsprozesses", die der liberalen Demokratie nun abgerungen werden müsse (1934 b: 7f.). Die Norm der politischen Gestaltung als sittlicher Ordnung wird bereits 1935 als Mahnung formuliert: Das "politische Volk" war für Freyer dasjenige Volk, das sich bewußt zu seinem politischen System bekennt und den Staat trägt, dem andererseits auch die Staatsform zu entsprechen hat. Einen echten Staat sollte man von einem unechten dadurch unterscheiden können, daß er nicht durch den Befehl eines Tyrannen, sondern durch die Überzeugung des Volkes zusammengehalten werde, und das Volk werde sich immer gegen einen Staat wenden, der nicht auf Dauer das Vertrauen des Volkes an sich binden könne (1935: 89 ff.). Volkwerdung heißt für Freyer die "Setzung eines bestimmten Herrschaftssysstems [...], die Fähigkeit, herrschaftliche Kräfte in sich überhaupt neu zu erzeugen und sich insbesondere dasjenige Herrschaftssystem zu geben, das den Aufgaben der Stunde gewachsen ist" (1933: 19), also ein "Gefüge von Führung und Gefolgschaft, von Herrschaft und Dienst" (1934a: 4), zu errichten - in heutiger Diktion: eine neue politische Elite in sich zu erzeugen und sich dasjenige Herrschaftssystem zu geben, das die gegenwärtigen politischen Aufgaben bewältigen kann. Das bedeutet gleichzeitig die "Schaffung einer bestimmten Raumgestalt in der Sphäre der Macht" (1933: 19). In der politischen Soziologie der Nachkriegszeit (z.B. Modelski 1978), die sich mit systemtheoretischen Begriffen viel nüchterner präsentiert, findet man diese politische Gestaltung wieder als Aufbau eines politischen Systems, die eine Definition der Systemgrenzen und die hierarchische innere Gliederung des Systems, wie auch seine Einordnung in die internationalen Machtstrukturen notwendig mit einschließt.

Drittens kann die "Volkwerdung" nur gelingen, wenn die innere gesellschaftliche Gestaltung zu einer bestimmten einheitlichen Formel findet, zu einem "staatlichen Prinzip" oder neuen "staatlichen Strukturgedanken" (1933: 21), sozusagen zu einem neuen Code, der sich durch die einzelnen sozialen Ebenen zieht und sie trotz all ihrer Selbständigkeit zusammenhält. Diese strukturelle Code, der in langfristigen Entwicklungsprozessen entsteht, der alle konkreten Strukturen sozusagen auf einer Metaebene begleitet und sich, wie die Grammatik einer Sprache, mit den strukturellen Entwicklungen auch verändert, war das zentrale theoretische Problem der Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft um Hans Freyer. Dieses Theorem liegt sowohl der Sprachpsychologie als auch der Bevölkerungswissenschaft Gunther Ipsens zugrunde, wie auch der Religionssoziologie Joachim Wachs, die er nach der Emigration in Chicago ausbaute. Paul Tillich, der Vertreter einer sich sozialistisch verstehenden dialektischen Theologie, hat in Freyers Institut die Begriffe der Theonomie, des Kairos und Telos, für diese Strukturformel und offene Entwicklungsdynamik erarbeitet, die gegen eine religiöse Orthodoxie gerichtet war und Ziel, Wille und Gestaltung einer konkreten Gemeinschaft mit einbeziehen sollte (Schüßler 1997: 48 f.). Die gemeinsamen Anstrengungen dieser interdisziplinären Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft, anstelle einer Theorie der vorbestimmten, zielgerichteten Entwicklung zu einem dynamischen Modell eines zugrundeliegenden Codes i.S. einer die Kulturentwicklung begleitenden generativen Grammatik zu gelangen, sind 1933 durch die Zerschlagung dieser Wissenschaftsgemeinschaft zum Stillstand gekommen, auch wenn jeder einzelne weiter daran gearbeitet hat.

Die heutige Aversion gegen zeitbedingte expressionistische Formulierungen und historische Metaphern, sowie die Interpretation dieses Modells ausschließlich auf die bald folgende politische Katastrophe hin, haben die Rezeption blockiert, daß bereits in der Leipziger Soziologie der zwanziger Jahre der Entwurf einer Staatstheorie versucht wurde, die nicht mehr begrenzt blieb auf Souveränität, Vorrecht der physischen Gewaltanwendung und reine Rechts- und Verfassungslehre, sondern die Reziprozität von sachlich-politischen Forderungen und Entscheidung des Volkes herausstellte. Freyers besonderer Beitrag hierzu besteht in der Verdeutlichung der Dimension der Herrschaft und Souveränität, in der Hervorhebung ihres dialektischen Verhältnisses zur Willens- und Entscheidungsgemeinschaft und der gerade auf der Interdependenz dieser beiden Dimensionen beruhenden Legitimität, schließlich in der Charakterisierung dieses dialektischen Verhältnisses als die Dimension des eigentlich "Politischen". Auch wenn dieses Modell noch nicht ausgearbeitet ist und zeitbedingt in historischen Analogien versteckt ist, ist es völlig verfehlt, es als "irrational" oder lediglich als ideologisches Machtstaatsdenken zu verwerfen. Ebenso hat die Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft bereits den logischen Schritt getan von der Teleologie als einer durch ein vorgefaßtes Ziel bestimmten Entwicklung hin zur teleonomischen Dynamik - eine Dynamik, die durch eine in der bisherigen Geschichte herauskristallisierte Grundarchitektonik bestimmt ist, jedoch in der zukünftigen Entwicklung die Freiheit einer vielfältigen Ausgestaltung unter neuen Einflüssen zuläßt. Die Ausarbeitung dieses logischen Modells war in der durch Diktaturen und Kriege zerstörten europäischen Wissenschaft nicht mehr möglich; sie erfolgte erst sehr viel später in der Neuen Welt (Mayr 1974), und die Ausarbeitung bleibt angesichts des globalen krisenhaften Wandels eine dringende sozialwissenschaftliche Aufgabe. Wenn diese Ausführungen die Schwierigkeiten und Gefahren einer wissenschaftshistorischen Werkrezeption aufzeigen konnten, wenn sie dazu anregen konnten, auch in den ethnologischen Arbeiten der Zwischenkriegszeit das Bleibende zu entdecken, indem man die wissenschaftlichen Ideen als "generative Grammatik" aus der Konstellation mit persönlichen Karrieren, dem Wechsel des politischen Rahmens und der institutionellen Zwänge herausfiltert, wäre der Sinn der damaligen Bemühungen bestens erfüllt.


 

1 Zum Schüler- und Kollegenkreis Freyers in Leipzig vgl. Üner (1981); zur Weiterführung seines Ansatzes Üner 1992: 93-96, 101 f.,114-117 u.a.

2 Die Verhandlungen Freyers können nur aus den Nachlässen von Ferdinand Tönnies und Werner Sombart rekonstruiert werden, denn die Akten der Deutschen Gesellschaft für Soziologie aus dieser Zeit sind im Krieg verbrannt. Auch Freyers gesamte Unterlagen wurden im Angriff auf Dresden 1945 zerstört. Die genauen Briefstellen würden hier zu weit führen; sie werden in einer umfangreicheren Arbeit dr Autorin über die Wirkungsgeschichte der Soziologie Hans Freyers erscheinen.

3 Über die Verunsicherung bezüglich Freyer Theodor Litts Briefe u.a. an Eduard Spranger (Nachlaß Litt, jetzt in der Theodor Litt-Forschungsstelle der Universität Leipzig), außerdem Gespräche der Autorin mit Fritz Borinski 1982.

4 Gespräch der Autorin mit Prof. Kurt Lenk 1994, der bestätigte, daß er dies von Heinz Maus persönlich erfahren hätte.

5 Der plötzliche Anbruch einer neuen Situation und Das vorsichtige institutionelle "Navigieren" Freyers 1933 ist am ausführlichsten dargestellt bei Diesener 1995. Konzessionen Freyers bei Dissertationen oder Habilitationen sollen nicht ausgeschlossen bleiben - sie gehören zu diesem Navigieren. Von emigrierten Schülern, auch z. B. von Theodor Litt wird nach 1945 bestätigt, daß Freyer "immer anständig geblieben" sei; alleine diese Wortwahl belegt, wie auswegslos und entwürdigend die Situation für alle Beteiligten war.

6 Anfang der dreißiger Jahre war das Modell einer parlamentarischen Demokratie nicht mehr ausschlaggebend in
Europa. Italien, Ungarn, Jugoslawien, Polen, die Sojetunion, die Türkei, Spanien hatten diktatorische Regime (in verschiedenen Varianten). Die einzigen europäischen Staaten, in denen eine konstitutionellen Demokratie in der ganzen Zwischenkriegszeit ohne Unterbrechung funktionierte, waren Großbrittannien, Finnland (mit Einschränkungen), der Freistaat Irland, Schweden und die Schweiz - während um 1918 nach der Katastrophe des Krieges die Institutionen der liberalen Demokratie auf dem Vormarsch waren. Vgl. Hobsbawm 1995: 145.

7 Nur einzelne Stichpunkte werden hier genannt aus den Artikeln "Rasse" und "Volk" in Brunner/Conze/Koselleck 1972 f: Bd. 5 bzw. 7.

8 Vgl. z. B. die Rubriken der Zeitschrift für Völkerpsychologie und Soziologie, herausgegeben von Richard Thurnwald, in denen neben der biologischen Rassenforschung die Ethnologie als Kulturwissenschaft berücksichtigt wird - ein Paradigmenwandel in der Ethnologie.

9 Der Begriff "Volk der Tat" wurde im begriffsgeschichtlichen Artikel "Verfassung" den konstitutionellen Ideen zu Beginn des 19. Jahrhunderts zugeordnet. Vgl. Brunner u.a. 1972 f., Bd 6: 876.

10 Unter diesem Titel hat der Philosoph und Anthropologe Max Scheler seine Aufsätze der auch wissenschaftlich sehr bewegten Jahre 1911-1914 vorgelegt( Scheler 1972).

11 Freyer erhielt den 1925 an der Universität Leipzig begründeten ersten Lehrstuhl in Deutschland für Soziologie ohne Beiordnung eines anderen Faches. Der damalige preußische Kultusminister, Carl Heinrich Becker, der die kulturelle Volkwerdung sich ebenfalls zur Lebensaufgabe machte und folglich nie einer politischen Partei beitrat, der unter vermutlichem persönlichen Einfluß Hans Freyers die Soziologie als Leitwissenschaft der Weimarer Reformen verstand, hat sich maßgeblich für die Berufung Freyers nach Leipzig eingesetzt, ebenso
wie der sozialdemokratische sächsische Hochschulreferent Robert Ulich.

12 Den Begriff und das Wissenschaftsverständnis hat Freyer aus Max Webers Wissenschaftslehre übernommen, aber dann historisch-existenzialistisch zugespitzt; s. hier S. 27 ff.

13 Das Verhältnis zu Trotzkis "permanenter Revolution" ist also schwer zu bestimmen. Einerseits ist der Staat als revolutionärer Akteur das Gegenteil zur Auffassung Trotzkis; andererseits ist im Volk, das sich ständig neu zu "Staat"
formieren soll, Trotzkis permanente revolutionäre Dynamik auch mit enthalten.

14 Die Gleichsetzung Rammstedts von Freyers Diktum, daß "Rasse ihren Ursprung und ihr Recht nur in bezug auf Volkstum" habe, mit dem biologischen Rassebegriff der "Deutschen Soziologen" (30, Fußnote 24), d.h. mit H.F.K. Günther, Reinhard Höhn, Ernst Krieck usw, ist eine Verdrehung des Sinns. Freyer sagt damit genau das Gegenteil: daß Rasse als biologischer Begriff für das Volk, da es Kulturgemeinschaft ist, sinnlos sei, daß man den Begriff "Rasse" nur in bezug auf Volkstum, d.h. auf langfristig vermittelte Geschichte, Sprache, Kultur, verwenden könne. S.a. den o.a. expressionistischen Begriff der "Rasse".

15 Hier kommt auch er zurück auf eine ausgewogenere Balance von strukturellen Gegebenheiten, Entwicklungsprozessen und Aktualisierung durch politisches Handeln, indem er den Staat allein noch durch die Wohlfahrt des Individuums und durch die langfristige positive Entwicklung der Gesellschaft gerechtfertigt sieht. Angesichts einer vollkommen pervertierten politischen Macht hatte der Begriff des "politischen Volkes" als neue generative Generalformel seine Berechtigung gänzlich verloren, während er in der Aufbruchseuphorie der zwanziger Jahre, im Diskurs mit Existenzialismus, Phänomenologie und
Neukantianimus eine wichtige Alternative darstellte, auch wenn
der theoretische Anspruch letztlich nicht zu erfüllen war (Freyer 1986 b).


 

(zurück nach oben)

Literatur:


Aron, Raymond
1935 La Sociologie Allemande Contemporaine. Paris: Felix Alcan.

Becker, Carl Heinrich
1925 Vom Wesen der deutschen Universität. Leipzig: Quelle & Meyer.

Brunner, Otto / Werner Conze / Reinhard Koselleck (Hrsg.)
1972 f. Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches
Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in
Deutschland. Stuttgart: Klett-Cotta.

Bühl, Walter L.
1974 Einführung in die Wissenschaftssoziologie.
München: C. H. Beck.

Diesener, Gerald
1995 Die schwierige Nachfolge. Hans Freyer als
Direktor des Instituts für Universal- und
Kulturgeschichte. In:
Archiv für
Kulturgeschichte
77: 117-133.

Freyer, Hans
1921 Die Bewertung der Wirtschaft im philosophischen Denken des 19. Jahrhunderts. Leipzig:
Engelmann.

Freyer, Hans
1929 Rezension von Othmar Spann,
Gesellschaftsphilosophie. In:
Kölner
Vierteljahrshefte für Soziologie und
Sozialpsychologie
8: 233-238.

Freyer, Hans
1930 Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft.
Leipzig-Berlin: B. G . Teubner.

Freyer, Hans
1931 a Einleitung in die Soziologie. Leipzig: Quelle & Meyer.
Freyer, Hans
1931 b Revolution von rechts. Jena: Eugen Diederichs.

Freyer, Hans
1932 Die Romantiker. In: Gründer der Soziologie.
Hrsg. von Fritz Karl Mann. Jena: Gustav
Fischer: 79-95.

Freyer, Hans
1933 Der politische Begriff des Volkes. Neumünster: Wachholtz.

Freyer, Hans
1934 a Von der Volksbildung zur politischen Schulung.
In: Die Erziehung 9: 1-12.

Freyer, Hans
1934 b Volkwerdung: Gedanken über den Standort und
über die Aufgaben der Soziologie. In:
Volksspiegel 1: 3-9.

Freyer, Hans
1935 Pallas Athene. Ethik des politischen Volkes.
Jena: Eugen Diederichs.

Freyer, Hans
1966 Theorie des objektiven Geistes (1923). Eine
Einleitung in die Kulturphilosophie. Nachdr. der 3. Aufl. Darmstadt: Wissenschaftliche
Buchgesellschaft.

Freyer, Hans
1986 Preußentum und Aufklärung, und andere Studien
zu Ethik und Politik. Hrsg. von Elfriede Üner.
Weinheim: VCH Acta Humaniora.

Freyer, Hans
1987 Herrschaft, Planung und Technik. Aufsätze zur
politischen Soziologie. Hrsg. von Elfriede
Üner. Weinheim: VCH Acta Humaniora.

Gay, Peter
1970 Die Republik der Außenseiter. Geist und Kultur
der Weimarer Zeit, 1918-1933. Frankfurt/M.:
Fischer

Heller, Hermann
1934 Staatslehre. Leiden: A. W. Sijthoff's
Uitgeversmaatschappij N. V.

Hobsbawm, Eric
1995 Das Zeitalter der Extreme. Weltgeschichte des
20. Jahrhunderts. München: DTV.

Käsler, Dirk
1984
Die frühe deutsche Soziologie 1909 bis 1934 und
ihre Entstehungsmilieus
. Eine
wissenschaftssoziologische Untersuchung.
Opladen: Westdeutscher Verlag.

Klingemann, Carsten
1981 Heimatsoziologie oder Ordnungsinstrument? In: Lepsius 1981 b: 273-307.

König, René
1975
Kritik der historisch-existenzialistischen
Soziologie
. Ein Beitrag zur Begründung einer
objektiven Soziologie. München: Piper

König, René
1987 Soziologie in Deutschland. Begründer /Verächter
/Verfechter. München: Hanser.

Kuhn, Thomas,
1976 Die Struktur wissenschaftlicher Revolutionen.
Frankfurt/M. Suhrkamp.

Lepsius, M. Rainer
1981 a Die Soziologie der Zwischenkriegszeit.
Entwicklungstendenzen und
Beurteilungskriterien. In: Lepsius 1981b:7-23.

Lepsius, M. Rainer (Hrsg.)
1981 b
Soziologie in Deutschland und Österreich 1918-
1945
. Sonderheft 23 der
Kölner Zeitschrift f.
Soziologie und Sozialpsychologie
.

Litt, Theodor
1919 Individuum und Gemeinschaft. Leipzig-Berlin: B.
G. Teubner.

Lukács, Georg
1946 Die deutsche Soziologie vor dem 1. Weltkrieg
In: Aufbau 2: 476-489.
Die deutsche Soziologie zwischen dem ersten und
dem zweiten Weltkrieg. Ebd. 585-600.

Mannheim, Karl
1932 Die Gegenwartsaufgaben der Soziologie.
Tübingen: Mohr.

Marcuse, Herbert
1931 Zur Auseinandersetzung mit Hans Freyers
Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft. In:
Philosophische Hefte 3: 83-91.

Marcuse, Herbert
1936 Sammelrezension. Darin Besprechung H. Freyer,
Pallas Athene. In:
Zeitschrift für
Sozialforschung
5: 107-109.

Mayr, Ernst
1974 Teleological and Teleonomic: A New Analysis.
In:
Boston Studies in the Philosophy of
Sciences
14: 90-117.

Modelski, George
1978 The Long Cycles of Global Politics and the
Nation State. In:
Comparative Studies in
Sociology and History
20: 214-235.

Müller, Karl Valentin
1927 Arbeiterbewegung und Bevölkerungsfrage. Jena:
Karl Zwing.

Muller, Jerry Z.
1987 The Other God That Failed. Hans Freyer and the
deradicalization of German conservatism.
Princeton: Princeton University Press.

Mullins, Nicholas C./ Carolyn J. Mullins
1973
Theories and Theory Groups in Contemporary
American Sociology
. New York: Harper & Row.

Parsons, Talcott
1968 The Structure of Social Action (1937). New
York: The Free Press.

Pieper, Josef
1931 Wirklichkeitswissenschaftliche Soziologie. In:
Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik
66: 394-407.

Rammstedt, Otthein
1986 Deutsche Soziologie 1933-1945. Die Normalität
einer Anpassung. Frankfurt/M.: Suhrkamp.

Scheler, Max
1972 Vom Umsturz der Werte. In: Gesammelte Werke Bd.
3. Bern: Francke.

Schüßler, Werner
1997 Paul Tillich. München: C. H. Beck.

Schulze, Winfried
1989 Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945.
München: Oldenbourg

Trotzki, Leo
1930 Die permanente Revolution. Berlin: Verlag der
"Aktion".

Üner, Elfriede
1981 Jugendbewegung und Soziologie. In: Lepsius
1981 b: 131-159.

Üner, Elfriede
1992 Soziologie als "geistige Bewegung". Hans
Freyers System der Soziologie und die
"Leipziger Schule". Weinheim: VCH Acta
Humaniora.

Archivquellen

Institut für Zeitgeschichte. Mikrofilmbestände aus dem Hauptamt Wissenschaft 1933 f. Berlin. Gutachten über Hans Freyer, Der politische Begriff des Volkes (1933, o. Verf.) MA 141/4: 0345413-14.

Universitätsarchiv Jena. Sammlung Diederichs, Korrespondenz H. Freyer - Nils Diederichs Feb.-März 1935.

Theodor-Litt-Forschungsstelle an der Erziehungswissenschaftlichen Fakultät der Universität Leipzig.

Archiv Peter für historische und zeitgeschichtliche Dokumentation, Hrsg., Spiegelbild einer Verschöwrung. Veröffentlichung der Akten NS 6, Bundesarchiv Koblenz, Sammlung 20. Juli 1944.

dimanche, 21 février 2010

La leçon du philosophe et sociologue Hans Freyer

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

La leçon du sociologue et philosophe Hans Freyer

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

 


freyer.jpgPour Hans Freyer (1887-1969), sociologue allemand néo-conservateur (« jeune-conservateur », jungkonservativ) qui sort du purgatoire où l'on avait fourré tous ceux qui ne singeaient pas les manies de l'École de Francfort ou ne paraphrasaient pas Saint Habermas, la virtù de Machiavel n'est pas une "vertu" ou une qualité statique mais une force qui n'attend qu'une chose : se déployer dans l'aire concrète de la Cité, dans l'épaisseur de l'histoire et du politique. Fondateur de l’École de Leipzig, d’où seront issus les meilleurs cadres de la sociologie historique de Weimar (il est parmi les fondateurs, avec Werner Conze, de la nouvelle histoire sociale allemande), puis de la sociologie nazie et une grande partie des sociologues conservateurs allemands d’après-Guerre (not. Helmuth Schelsky), ce sociologue a une solide formation de philosophe, dont l’ouvrage fondateur, Theorie des objektiven Geistes (1928) qui poursuit les pensées de Hegel et de Wilhelm Dilthey, va préparer le projet sociologique, not. dans son ouvrage Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft (1930), d’une « révolution de droite » qui prendrait acte de l’anomie de la société industrielle et de l’échec de la lutte des classes, en lui opposant un État autoritaire. Ayant pris ses distances avec le nazisme – il sera professeur à Budapest entre 1941 et 1945 – il est l’exemple même du penseur conservateur, du théoricien de cette Révolution conservatrice qui aura grand mal à se justifier au moment de la dénazification. Il n’en est pas moins l’un des premiers sociologues professionnels qui, après la mort de Max Weber et de Georg Simmel, dont il ne cesse de se nourrir de manière critique, va lancer des projets innovateurs en sociologie industrielle, des organisations et de l’administration publique.

 

Victor Leemans, qui avant-guerre avec Raymond Aron introduisit en Belgique et en France les grands noms de la sociologie allemande, écrivait, à propos de Hans Freyer, dans son Inleiding tot de sociologie (Introduction à la sociologie, 1938) :

« Pour Freyer, toute sociologie est nécessairement "sociologie politique". Ses concepts sont toujours compénétrés d'un contenu historique et désignent des structures particulières de la réalité. Dans la mesure où la sociologie se limite à définir les principaux concepts structurels de la vie sociale, elle doit ipso facto s'obliger à prendre le pouls du temps. Elle doit d'autant plus clairement nous révéler les successions séquentielles irréversibles où se situent ces concepts et y inclure les éléments de changement, Les catégories sont dès lors telles : communauté, ville, état (Stand), État (Staat), etc., tous maillons dans une chaîne processuelle concrète et réelle. Ces concepts ne sont pas des idéaltypes abstraits mais des réalités liées au temps. (...)

Selon Freyer, aucune sociologie n'est donc pensable qui ne débouche pas dans la connaissance de la réalité contemporaine. À ce concept de réalité ne s'attache pas seulement la connaissance des structures immédiatement perceptibles mais aussi et surtout la connaissance des volontés de maintien ou de transformation qui se manifestent en leur sein. La connaissance sociologique opte nécessairement pour une direction déterminée découlant d'une connaissance de la Realdialektik (dialectique réalitaire [ou dialectique réelle, c'est-à-dire non simplement discursive])... ».

 

Une sociologie de l'homme total

 

­Malgré cette définition courte de l'œuvre de Freyer, définition qui veut souligner le recours au concret postulé par le sociologue allemand, nous avons l'impression de nous trouver face à un édifice conceptuel horriblement abstrait, détaché de toute concrétude historique. Ce malaise, qui nous saisit lorsque nous sommes mis en présence de l'appareil conceptuel forgé par Freyer, doit pourtant disparaître si l'on fait l'effort de situer ce sociologue dans l'histoire des idées politiques. Avec les romantiques, les jeunes hégéliens (Junghegelianer), Feuerbach et Karl Marx, le XIXe siècle montre qu'il souhaite abandonner définitivement l'homme des humanistes, cet homme perçu comme figure universelle, comme espèce générale dépouillée de sa dimension historico-concrète. Désormais, sous l'influence et les coups de boutoir de ces philosophies concrètes, l'épaisseur historique sera rendue à l'homme : on le percevra comme seigneur féodal, comme serf, bourgeois ou prolétaire.

 

Une « objectivité » qui doit mobiliser l'homme d'action

 

Mais ces hégéliens et marxistes, qui dépassent résolument l'idéalisme fixiste de l'humanisme antérieur au XlXe, demeurent mécaniquement enfermés dans la vision de l'homo œconomicus et n'explorent que chichement les autres domaines où l'homme s'exprime. À cette négligence des matérialistes marxistes répond l'hyper-mépris des économismes d'un Wagner ou d'un Schopenhauer, d'un Nietzsche ou d'un Jakob Burckhardt. L'homme total n'est appréhendé ni chez les uns ni chez les autres. Pour Freyer, les essayistes et polémistes anglais Carlyle et John Ruskin nous ont davantage indi­qué une issue pour échapper à ce rabougrissement de l'homme. Leurs préoccupations ne les entraînaient pas vers des empyrées légendaires, néo-idéalistes ou spiritualistes mais les amenaient à réfléchir sur les moyens de dépasser l'homme capitaliste, de restituer une harmonie entre le travail et la Vie, entre le travail et la création intellectuelle ou artistique.

Dans deux postfaces aux travaux de Freyer sur Machiavel (ou sur l'Anti-Machiavel de Frédéric Il de Prusse), Elfriede Üner nous explique comment fonctionne concrètement la sociologie de Freyer, qui cherche, au-delà de l'abstractionnisme matérialiste marxiste et de l'abstractionnisme humaniste pré-mar­xiste, à restaurer l'homme total. Pour parvenir à cette tâche, la sociologie et le sociologue ne peuvent se contenter de décrire des faits sociaux passés ou présents, mais doivent forger des images mobilisatrices ti­rées du passé et adaptées au présent, images­ qui correspondent à une volition déter­minée, à une volition cherchant à construire un avenir solide pour la Cité.

La méthode de Freyer repose au départ, écrit Elfriede Üner, sur la théorie de "l'esprit objectif" (Theorie des objektiven Geistes). Cette théorie recense les faits mais, simultanément, les coagule en un programme revendicateur et prophétique, indiquant au peuple politique la voie pour sortir de sa misère actuelle. Le sociologue ne saurait donc être, à une époque où le peuple cherche de nouvelles for­mes politiques, un savant qui fuit la réalité concrète pour se réfugier dans le passé : « Qu'il se fasse alors historien ou qu'il se retire sur une île déserte ! », ironisera Freyer. Cette parole d'ironie et d'amertume est réellement un camouflet à la démarche "muséifiante" que bon nombre de sociologues "en chambre" ne cessent de poser.

Les écrits de sociologie politique doivent donc receler une dimension expressionniste, englobant des appels enflammés à l'action. Ces appels aident à forger le futur, comme les appels de Machiavel et de Fichte ont contribué à l'inauguration d'époques historiques nouvelles. Fichte parlait d'un « devoir d'action » (Pflicht zur Tat). Freyer ajoutera l'idée d'un « droit d'action » (Recht zur Tat). « Devoir d'action » et « droit d'action » forment l'épine dorsale d'une doctrine d'éthique poli­tique (Sittenlehre). L'activiste, dans cette optique, doit vouloir construire le futur de sa Cité. Anticipation constructive et audace activiste immergent le sociologue et l'acteur politique dans le flot du devenir historique. L'activiste, dans ce bain de faits bruts, doit savoir utiliser à 100 % les potentialités qui s'offrent à lui. Cette audacieuse mobilisation totale d'énergie, dans les dangers et les opportunités du devenir, face aux aléas, constitue un "acte éthique".

 

Une immersion complète dans le flot de l'histoire

 

L'éthique politique ne découle pas de normes morales abstraites mais d'un agir fécond dans la mouvance du réel, d'une immersion complète dans le flot de l'histoire. L'éthique freyerienne est donc "réalitaire et acceptante". Agir et décider (entscheiden) dans le sens de cette éthique réalitaire, c'est rendre concrètes des potentialités inscrites dans le flot de l'histoire. Freyer inaugure ici un "déterminisme intelligible". Il abandonne le ­concept de "personnalité esthétisante", individualité constituant un petit monde fermé ­sur lui-même, pour lancer l'idée d'une personnalité dotée d'un devoir précis, celui de fonctionner le plus efficacement possible dans un ensemble plus grandiose : la Cité. L'éthique doit incarner dans des images matérielles concrètes, générant des actes et des prestations individuels concrets, pour qu'advienne et se déploie l'histoire.

Selon cette vision freyerienne de l'éthique politique, que doit nécessairement faire sienne le sociologue, un ordre politique n'est jamais statique. Le caractère processuel du politique dérive de l'émergence et de l'assomption continuelles de potentialités historiques. Le développement, le changement, sont les fruits d'un déplacement perpétuel d'accent au sein d'un ordre politique donné, c'est-à-dire d'une politisation subite ou progressive de tel ou tel domaine dans une communauté politique. Le développement et le changement ne sont donc pas les résultats d'un "progrès" mais d'une diversification par fulgurations successives [fractales], jaillissant toutes d'une matrice politico-historique initiale. La  logique du sociologue et du politologue doit donc viser à saisir la dynamique des fulgurances successives qui remettent en question la statique éphémère et nécessairement provisoire de tout ordre politique.

 

Une sociologie qui tient compte des antagonismes

 

Cette spéculation sur les fulgurances à venir, sur le visage éventuel que prendra le futur, contient un risque majeur : celui de voir la sociologie dégénérer en prophétisme à bon marché. Le sociologue, qui devient ainsi "artiste qui cisèle le futur", poursuit, dans le cadre de l'État, l'œuvre de création que l'on avait tantôt attribué à Dieu tantôt à l'Esprit. L'homme, sous l'aspect du sociologue, devient créateur de son destin. Au Dieu des humanistes chrétiens, s'est substitué une figure moins absolue : l'homo politicus... Cette vision ne risque-t-elle pas de donner naissance aux pires des simplismes ?

Elfriede Üner répond à cette objection : la reine Rechtslehre (théorie pure du droit) du libéral Hans Kelsen, idole des juristes contemporains et ancien adversaire de Carl Schmitt, constitue, elle aussi, une "simplification" quelque peu outrancière. Elle n'est finalement que repli sur un formalisme juridique qui détache complètement le système logique, constitué par les normes du droit, des réalités sociales, des institutions objectives et des legs de l'histoire. Rudolf Smend, lui, parlera de la "domination" (Herrschaft) comme de la forme la plus générale d'intégration fonctionnelle et évoquera la participation démocratique des dominés comme une intégration continue des individus dans la forme globale que représente l'État.

Cette idée d'intégration continue, que caressent bon nombre de sociaux-démocrates, évacue tensions et antagonismes, ce que refuse Fre­yer. Si, pour Smend, la dialectique de l'es­prit et de l'État s'opère en circuit fermé, Freyer estime qu'il faut dépasser cette situation par trop idéale et concevoir et forger un modèle de système plus dynami­que, capable de saisir les fluctuations tragi­ques d'une ère faite de révolutions. L'idéal d'une intégration totale s'effectuant progressivement ne permet pas de projeter dans la praxis politique des "futurs imaginés" qui soient réalistes : un tel idéal s'abrite frileusement derrière la muraille protectrice d'un absolu théorique.

 

À droite : utopies passéistes, à gauche : utopies progressistes

 

La dialectique de l'esprit et du politique (de l'État), c'est-à-dire de l'imagination constructive et des impératifs de la Cité, de l'imagination qui répond aux défis de tous ordres et des forces incontournables du politique, n'a reçu, en ce siècle de turbulences incessantes, que des interprétations insatisfaisantes. Freyer estime que la sociologie organique d'Othmar Spann (1878-1950) constitue une impasse, dans le sens où elle opère un retour nostalgique vers la structuration de la société en états (Stände) avec hiérarchisation pyramidale de l'autorité. Cette autorité abolirait les antagonismes et évacuerait les conflits : ce qui indique son caractère finalement utopique. À "gauche", Franz Oppenheimer élabore une sociologie "progressiste" qui évoque une succession de modèles sociaux aboutissent à une société sans classes et sans plus aucun antagonisme : cet espoir banal des gauches s'avère évidemment utopique, comme l'ont indiqué quantité de critiques et de polémistes étrangers à ce messianisme. Freyer renvoie donc dos à dos les utopistes passéistes de droite et les utopistes progressistes de gauche.

Ces systèmes utopiques sont "fermés", signale Freyer longtemps avant Popper, et trahissent ipso facto leur insuffisance fondamentale. Les concepts scientifiques doivent demeurer "ouverts" car l'acteur politique injecte en eux, par son action concrète et par son expérience existentielle, la quintessence innovante de son époque. Freyer privilégie ici l'homo politicus agissant, le sujet de l'histoire. Les acteurs politiques, dans l'opti­que de Freyer, façonnent le temps.

L'idée essentielle de Freyer en matière de sociologie, c'est celle d'une construction pratique ininterrompue de la réalité [les époques sont en relation les unes aves avec les autres dans la dynamique de la continuité historique]. Aux époques politiquement instables, les normes scientifiques (surtout en sciences humaines) sont décrétées obsolètes ou doivent impérativement subir un aggiornamento, une re-formulation. L'histoire est, par suite, un chantier où œuvrent des acteurs-artistes qui, à la façon des expressionnistes, recréent des mondes à partir du chaos, de ruines. Freyer, écrit Elfriede Üner, glorifie, un peu mythiquement, l'homme d'action.

 

Le peuple (Volk) est le dépositaire de la virtù

 

Le personnage de Machiavel, analysé méthodiquement par Freyer, a projeté dans l'histoire des idées cette notion expressionniste/ créatrice de l'action politico-historique. Le concept machiavelien de virtù, estime Freyer, ne désigne nullement une "vertu morale statique" mais représente la force, la puissance de créer un ordre politique et le maintenir. Virtù recèle dès lors une qualité "processuelle", écrit Elfriede Üner. Par le biais de Machiavel, Freyer introduit, dans la science sociologique jusqu'alors "objective" et statique à la Comte, un ferment de nietzschéisme, dans le sens où Nietzsche voyait l'existence humaine comme un imperfectum qui ne pouvait jamais être "parfait" mais qu'il fallait sans cesse façonner et travailler.

Le "peuple", dans la vision freyerienne du social et du politique, est, grâce à sa mémoire historique, le dépositaire de la virtù, c'est-à-dire de la "force créatrice d'histoire". Le peuple suscite des antagonismes quand les normes juridiques et/ou institutionnelles ne correspondent plus aux défis du temps, aux impératifs de l'heure ou au ni veau atteint par la technologie. Un système "ouvert" implique de laisser au peuple historique toute latitude pour modifier ses institutions.

Le système freyerien est, en dernière instance, plus démocratique que le démocratisme normatif qui, à notre époque, prétend, sur l'ensemble de la planète, être la seule forme de démocratie possible. Quand Freyer parle de « droit à l'action » (cf. supra), corollaire d'un « devoir éthique d'action », il réserve au peuple un droit d'intervention sur la trame du devenir, un droit à façonner son destin. En ce sens, il précise la vision machiavelienne du peuple dépositaire de la  virtù, oblitérée, en cas de tyrannie, par l'arbitraire du tyran individuel ou oligarchique.

 

Relire Freyer

 

Relire Freyer, contemporain de Schmitt, nous permet de déployer une critique du normativisme juridique, au nom de l'imbrication des peuples dans l'histoire et du décisionnisme. L'État de droit, c'est finalement un État qui se laisse réguler par la virtù enfouie dans l'âme collective du peuple et non un État qui voue un culte figé à quel­ques normes abstraites qui finissent toujours par s'avérer désuètes.

­Et cette volonté freyerienne de s'imbriquer totalement dans le réel pour échapper aux mondes stérilisés des réductionnismes matérialistes, économistes et caricaturalement normatifs que nous lèguent les marxismes et libéralismes vulgaires, ne pourrait-on pas la lire parallèlement à Péguy ou aux génies de l'école espagnole : Unamuno avec sa dialectique du cœur, Eugenio d'Ors, Ortega y Gasset ?

 

► Robert STEUCKERS, Vouloir n°37/39, 1987.


1) Hans FREYER, Machiavelli (mit einem Nachwort von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Weinheim, IX/133 p.

2) Hans FREYER, Preussentum und Aufklärung und andere Studien zu Ethik und Politik (herausgegeben und kommentiert von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Welnheim, 222 p.

 

¤ Compléments bibliographiques :

 

  • Les Fondements du monde moderne - Théorie du temps présent, H. Freyer, Payot, coll. Bibliothèque scientifique, 1965.
  • « Romantisme et conservatisme. Revendication et rejet d'une tradition dans la pensée politique de Thomas Mann et Hans Freyer », C. Roques, in : Les romantismes politiques en Europe, dir. G. Raulet, MSH, avril 2009.
  • « Die umstrittene Romantik. Carl Schmitt, Karl Mannheim, Hans Freyer und die "politische Romantik" », C. Roques, in : M. Gangl/ G. Raulet (dir.), Intellektuellendiskurse in der Weimarer Republik. Zur politischen Kultur einer Gemengelage, 2. neubearbeitete und erweiterte Auflage, Frankfurt/M., Peter Lang Verlag 2007 [= Schriftenreihe zur Politischen Kultur der Weimarer Republik, Bd. 10]. [cf. sur ce thème : Les formes du romantisme politique]
  • Nationalité et Modernité, D. Jacques, Boréal, Montréal, 1998, 270 p.
  • The Other God that Failed : Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism, J. Z. Muller, Princeton Univ. Press, 1987. Cf. [pt] Reinterpretar Hans Freyer.
  • « The Sociological Theories of Hans Freyer : Sociology as a Nationalistic Program of Social Action », Ernest Manheim in : An Introduction to the History of Sociology, H. E. Barnes (éd.), Chicago Univ. Press, 1948.

 

¤ Citation :

 

  • « Il faut une volonté politique pour avoir une perception sociologique ».

 

¤ Liens :

 

 

¤ Évocations diverses :

 

1) LE CARACTÈRE INHUMAIN DU CAPITALISME : Mais comment se présente plus précisément le capitalisme moderne comme système d’action? Un grand sociologue humaniste du XXe siècle, Hans Freyer, peut nous aider à répondre. Dans son livre Theorie des gegenwärtigen Zeitalters (Théorie de l’époque actuelle, 1956), il parle des "systèmes secondaires" comme de produits spécifiques du monde industrialisé moderne et en analyse la structure avec précision. Les systèmes secondaires sont caractérisés par le fait qu’ils développent des processus d’action qui ne se rattachent pas à des organisations préexistantes, mais se basent sur quelques principes fonctionnels, par lesquels ils sont construits et dont ils tirent leur rationalité. Ces processus d’action intègrent l’homme non comme personne dans son intégralité, mais seulement avec les forces motrices et les fonctions requises par les principes et par leur mise en œuvre. Ce que les personnes sont ou doivent être reste en dehors. Les processus d’action de ce genre se développent et se consolident en un système répandu, caractérisé par sa rationalité fonctionnelle spécifique, qui se superpose à la réalité sociale existante en l’influençant, la changeant et la modelant. Voilà la clé qui permet d’analyser le capitalisme comme système d’action. (S. Magister)

 

2) En ce qui concerne la tradition sociologique allemande, qui est marquée par l'influence de nombreuses conceptions philosophiques (notamment celles du système de Hegel), elle subit en particulier l'influence néfaste de la distinction opérée par Wilhelm Dilthey (1833-1911) entre les systèmes de culture (art, science, religion, morale, droit, économie) et les formes «externes» d'organisation de la culture (communauté, pouvoir, État, Église). Cette dichotomie fut encore aggravée par Hans Freyer (1887-1969) qui distinguait les « contenus objectifs » ou « signification devenue forme », qui sont les « formes objectivisées de l'esprit » dont l'étude relève des « sciences du logos », de leurs « être et devenir réels » qui sont l'objet des « sciences de la réalité ». Le caractère insupportablement artificiel de cette opposition ne saurait être mieux démontré qu'en rappelant que dans cette conception, le langage lui-même est défini comme un « assemblage de mots et de significations, de formes mélodiques et de formations syntaxiques », comme si on pouvait appréhender le langage indépendamment de l'organisation sociale des hommes qui l'emploient. Bien entendu, les langues (Langage) présentent aussi des structures intellectuelles qu'on ne peut expliquer par la sociologie sans tomber dans l'erreur du sociologisme; mais ces structures ne constituent que la moitié du problème. En outre, les entités intellectuelles objectives ne peuvent jamais être opposées au devenir social, mais seulement former avec lui une corrélation fonctionnelle dans des complexes d'action culturelle (A. Silbermann). Dilthey lui-même adoptait à cet égard une position radicalement plus ouverte, aussi bien dans ses explications réelles, opposées à son projet, que dans beaucoup d'autres occasions, comme le prouvent ses tentatives pour établir les fondements psychologiques des sciences humaines et ses tentatives périodiques pour mettre sur pied une éthologie empirique (que l'on pourrait également définir comme une science empirique de la culture). Le danger que recèle cette distinction consiste avant tout dans ce qu'elle ouvre la voie à une sorte de distinction hiérarchique à une culture « supérieure », en quelque sorte proche de l'« esprit », et une culture « inférieure » ; celle-ci se confond facilement avec le concept de « civilisation » (matérielle), ce qui introduit dans toute cette approche du problème une évaluation patente. Il semble préférable de passer de ces conceptions fortement teintées de philosophie à une approche plus réaliste. Après la destruction totale de l'ancienne théorie des aires culturelles par l'ethnologie moderne, la dernière possibilité apparente de séparer certains contenus culturels de leurs rapports fonctionnels avec la société a définitivement disparu. (R. König)

 

3) La conférence « Normes éthiques et politiques » que Freyer a tenue en mai 1929 devant la Kant-Gesellschaft, souligne encore la primauté de l'État [comme fondement de la vie politique] sur le peuple. « L'État est celui qui rassemble et éveille les forces du peuple au service d'un projet culturel caractéristique ; sa politique est le fer de lance dans lequel le peuple devient historique ». Deux ans plus tard [en pleine crise de la République de Weimar], Freyer voit la signification véritable de la « révolution de droite  » dans la résolution avec laquelle elle mobilise le peuple contre l'État. Et trois ans plus tard, il est avéré, pour Freyer, « qu'il existe aussi un véritable esprit du peuple en dehors des frontières politiques de l'État-Nation ». L'esprit du peuple, lit-on alors dans un sens tout à fait national-populiste, « doit être autre chose qu'un contexte fondé sur la politique. Le peuple doit être autre chose qu'un rassemblement d'hommes au sein d'un système étatique » (1934). Les singulières variations qui caractérisent la définition par Freyer du rapport de l'État et du peuple sont bien mises en valeur chez Üner (Soziologie als „geistige Bewegung“. Hans Freyers System der Soziologie und die „Leipziger Schule“, 1992). (S. Breuer)

samedi, 20 février 2010

Céline vient de débarquer

celine_1_louis-ferdinand-celine-0045_1262086184.jpgCéline vient de débarquer...

Lucien Rebatet

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Quand un matin du début de novembre 1944, le bruit se répandit dans Sigmaringen : « Céline vient de débarquer », c’est de son Kränzlin que le bougre arrivait tout droit. Mémorable rentrée en scène. Les yeux encore pleins du voyage à travers l’Allemagne pilonnée, il portait une casquette de toile bleuâtre, comme les chauffeurs de locomotive vers 1905, deux ou trois de ses canadiennes superposant leur crasse et leurs trous, une paire de moufles mitées pendues au cou, et au-dessus des moufles, sur l’estomac, dans une musette, le chat Bébert, présentant sa frimousse flegmatique de pur parisien qui en a bien connu d’autres. Il fallait voir, devant l’apparition de ce trimardeur, la tête des militants de base, des petits miliciens : « C’est ça, le grand écrivain fasciste, le prophète génial ? » Moi-même, j’en restais sans voix.  Louis-Ferdinand, relayé par Le Vigan, décrivait par interjections la gourance de Kränzlin, un patelin sinistre, des Boches timbrés, haïssant le Franzose, la famine au milieu des troupeaux d’oies et de canards. En somme, Hauboldt était venu le tirer cordialement de ce trou, et Céline, apprenant l’existence à Sigmaringen d’une colonie française, ne voulait plus habiter ailleurs.

La première stupeur passée, on lui faisait fête. Je le croyais fini pour la littérature. Quelques mois plus tôt, je n’avais vu dans son Guignol’s Band qu’une caricature épileptique de sa manière (je l’ai relu ce printemps, un inénarrable chef d’œuvre, Céline a toujours eu dix, quinze ans d’avance sur nous). Mais il avait été un grand artiste, il restait un grand voyant.  Nous nous sommes rencontrés tous les jours pendant quatre mois, seul à seul, ou en compagnie de La Vigue, de Lucette, merveilleuse d’équilibre dans cette débâcle et dans le sillage d’un tel agité. Céline, outre sa prescience des dangers et cataclysmes très réels, a été constamment poursuivi par le démon de la persécution, qui lui inspirait des combinaisons et des biais fabuleux pour déjouer les manœuvres de quantités d’ennemis imaginaires. Il méditait sans fin sur des indices perceptibles de lui seul, pour parvenir à des solutions à la fois aberrantes et astucieuses. Autour de lui, la vie s’enfiévrait aussitôt de cette loufoquerie tressautante, qui est le rythme même de ses plus grands bouquins. Cela aurait pu être assez vite intolérable. Mais la gaité du vieux funambule emportait tout.

Le « gouvernement » français l’avait institué médecin de la colonie. Il ne voulait d’ailleurs pas d’autre titre. Il y rendit des services. Abel Bonnard, dont la mère, âgée de quatre-vingt-dix ans, se mourait dans une chambre de la ville, n’a jamais oublié la douceur avec laquelle il apaisa sa longue agonie. Il pouvait être aussi un excellent médecin d’enfants. Durant les derniers temps, dans sa chambre de l’hôtel Löwen, transformée en taudis suffocant (dire qu’il avait été spécialiste de l’hygiène !) il soigna une série de maladies intrinsèquement célinesques, une épidémie de gale, une autre de chaudes-pisses miliciennes. Il en traçait des tableaux ébouriffants.  L’auditoire des Français, notre affection le ravigotaient d’ailleurs, lui avaient rendu toute sa verve. Bien qu’il se nourrît de peu, le ravitaillement le hantait : il collectionnait par le marché noir les jambons, saucisses, poitrines d’oies fumées. Pour détourner de cette thésaurisation les soupçons, une de ses ruses naïves était de venir de temps à autre dans nos auberges, à l' « Altem Fritz », au « Bären », comme s'il n'eût eu d'autres ressources, partager la ration officielle, le « Stammgericht », infâme brouet de choux rouges et de rutabagas. Tandis qu'il avalait la pitance consciencieusement, Bébert le « greffier » s'extrayait à demi de la musette, promenait un instant sur l'assiette ses narines méfiantes, puis regagnait son gîte, avec une dignité offensée.

— Gaffe Bébert ! disait Ferdinand. Il se laisserait crever plutôt que de toucher à cette saloperie... Ce que ça peut être plus délicat, plus aristocratique que nous, grossiers sacs à merde ! Nous on s'entonne, on s'entonnera de la vacherie encore plus débectante. Forcément !

Puis, satisfait de sa manœuvre, de nos rires, il s'engageait dans un monologue inouï, la mort, la guerre, les armes, les peuples, les continents, les tyrans, les nègres, les Jaunes, les intestins, le vagin, la cervelle, les Cathares, Pline l'Ancien, Jésus-Christ. La tragédie ambiante pressait son génie comme une vendange. Le cru célinien jaillissait de tous côtés. Nous étions à la source de son art. Et pour recueillir le prodige, pas un magnétophone dans cette Allemagne de malheur ! (Il en sort à présent cinquante mille par mois chez Grundig pour enregistrer les commandes des mercantis noyés dans le suif du « miracle » allemand.)

Dans la vaste bibliothèque du château des Hohenzollern Céline avait choisi une vieille collection de la Revue des Deux Mondes, 1875-1880. Il ne tarissait pas sur la qualité des études qu'il y trouvait : « Ça, c'était du boulot sérieux... fouillé, profond, instructif... Du bon style, à la main... Pas de blabla. » C'est la seule lecture dont il se soit jamais entretenu devant moi. Il était extrêmement soucieux de dissimuler ses « maîtres », sa « formation ». Comme si son originalité ne s'était pas prouvée toute seule, magnifiquement.

De temps à autre, quand nous nous promenions tous deux sans témoin, le dépit lui revenait de sa carrière brisée, mais sans vaine faiblesse, sur le ton de la gouaille :
— Tu te rends compte ? Du pied que j'étais parti... Si j'avais pas glandé à vouloir proférer les vérités... Le blot que je me faisais... Le grand écrivain mondial de la « gôche »... Le chantre de la peine humaine, de la connarderie absurde... Sans avoir rien à maquiller. Tout dans le marrant, Bardamu, Guignol, Rigodon... Prix Nobel... Les pauvres plates bouses que ça serait, Aragon, Malraux, Hemingway, près du Céline... gagné d'avance... Ah ! dis donc, où c'est que j'allais atterrir !... « Maî-aître »... Le Nobel... Milliardaire... Le Grand Crachat... Doctor honoris causa... Tu vois ça d'ici !

Bien entendu, il ne fut pas question un seul instant d’employer Céline à une propagande quelconque, hitlérienne ou française. Moi-même, tout à fait indifférent aux bricolages « ministériels », je passai l’hiver à compulser les livres d’art du Château et à grossir le manuscrit de mon roman, les Deux Etendards.

Nous devions en grande partie ces privilèges à notre ami commun, le cher Karl Epting, qui avait dirigé l’Institut allemand à Paris, le vrai lettré européen, demeuré d’une francophilie inaltérable, même après les deux années de Cherche-Midi dont il paya.

Outre  cette amitié précieuse, la mansuétude de tous les officiers allemands était acquise à Céline. Et il la fallait très large, pour qu’ils pussent fermer leurs oreilles à ses sarcasmes. Car Louis-Ferdinand était bien le plus intolérant, le plus mal embouché de tous les hôtes du Reich. Pour tout dire, il ne pardonnait pas à Hitler cette débâcle qui le fourrait à son tour dans de si vilains draps. C’était même le seul chapitre où il perdît sa philosophie goguenarde, se fît hargneux, méchant. Par réaction, par contradiction, l’antimilitariste saignant du Voyage se recomposait un passé, une âme de patriote à la Déroulède. Ah ! l’aurai-je entendu, le refrain de son fait d’armes des Flandres, « maréchal des logis Destouches, volontaire pour une liaison accomplie sous un feu d’une extrême violence », et du dessin qui l’avait immortalisé à la première page de l’Illustré National.

– En couleurs… Sur mon gaye… Au galop, le sabre au vent… Douzième cuirassier !... Premier médaillé militaire sur le champ de bataille de la cavalerie française… C’est moi, j’ai pas changé. Présent !... qui c’est qui me l’a tiré ma balle dans l’oreille ? C’est pas les Anglais, les Russes, les Amerlos… J’ai jamais pu les piffer, moi les Boches. De les voir se bagotter comme ça partout, libres, les sales « feldgrau » sinistres, j’en ai plein les naseaux, moi, plein les bottes !

– Mais enfin, Louis, tu oublies. Ils sont chez eux, ici !

– J’oublie pas, j’oublie pas, eh ! fias ! C’est bien la raison… Justement… Les faire aux pattes, sur place ! Une occasion à profiter, qui se retrouvera pas… Au ch’tar, les Frizons, tous, les civils comme les griviers. Au « Lag », derrière les barbelés, triple enceinte électrique… Tous, pas de détail. Voilà comment je la vois, moi, leur Bochie.

Il écumait, réellement furieux. Alors qu’il reniflait des traquenards sous les invites les plus cordiales, qu’il se détournait d’un kilomètre pour éviter une voiture dont le numéro ne lui paraissait « pas franc », il se livrait devant les Allemands à son numéro avec une volupté qui écartait toute prudence. Karl Epting avait projeté de constituer, pour notre aide, une Association des intellectuels français en Allemagne. Un comité s’était réuni, à la mairie de Sigmaringen. Céline y avait été convié, en place d’honneur. Au bout d’une demi-heure, il l’avait transformée en pétaudière dont rien ne pouvait plus sortir.

Un dîner eut lieu cependant le soir, singulièrement composé d’un unique plat de poisson et d’une kyrielle de bouteilles de vin rouge. De nombreuses autorités militaires et administratives du « Gau » s’étaient faites inviter, friandes d’un régal d’esprit parisien. Il y avait même un général, la « Ritterkreuz » au cou. Céline, qui ne buvait pas une goutte de vin, entama un parallèle opiniâtre entre le sort des « Friquets », qui avaient trouvé le moyen de se faire battre, mais pour rentrer bientôt chez eux, bons citoyens et bons soldats, consciences nettes, ne devant des comptes à personne, ayant accompli leur devoir patriotique, et celui des « collabos » français qui perdaient tout dans ce tour de cons, biens, honneur et vie. Alors ; lui, Céline, ne voyait plus ce qui pourrait l’empêcher de proclamer que l’uniforme allemand, il l’avait toujours eu à la caille, et qu’il n’avait tout de même jamais été assez lourd pour se figurer que sous un pareil signe la collaboration ne serait pas un maléfice atroce. Mais les hauts militaires avaient décidé de trouver la plaisanterie excellente, ils s’en égayèrent beaucoup, et Ferdinand fut regretté quand il alla se coucher.

Les Allemands passaient tout à Céline, non point à cause de ses pamphlets qu'ils connaissaient mal, mais parce qu'il était chez eux le grand écrivain du Voyage, dont la traduction avait eu un succès retentissant. Le fameux colonel Boemelburg lui-même, terrible bouledogue du S.D. et policier en chef de Sigmaringen, s'était laissé apprivoiser par l'énergumène. Il fallait bien d'ailleurs que Céline fût traité en hôte exceptionnel pour être arrivé à décrocher le phénoménal « Ausweis », d'un mètre cinquante de long, militaire, diplomatique, culturel et ultra-secret, qui allait lui permettre, faveur unique, de franchir les frontières de l'Hitlérie assiégée.

Il n'avait pas fait mystère de son projet danois : puisque tout était grillé pour l'Allemagne, rejoindre coûte que coûte Copenhague, où il avait confié dès le début de la guerre à un photographe de la Cour son capital de droits d'auteur, converti en or, et que ledit photographe avait enterré sous un arbre de son jardin. L'existence, la récupération ou la perte de ce trésor rocambolesque n'ont jamais pu être vérifiées. Mais sur la fin de février ou au début de mars, on apprit bel et bien que Céline venait de recevoir le mythique « Ausweis » pour le Danemark.

Deux ou trois jours plus tard, pour la première fois, il offrit une tournée de bière, qu'il laissa du reste payer à son confrère, le docteur Jacquot. À la nuit tombée, nous nous retrouvâmes sur le quai de la gare. Il y avait là Véronique, Abel Bonnard, Paul Marion, Jacquot, La Vigue, réconcilié après sa douzième brouille de l'hiver avec Ferdine, deux ou trois autres intimes. Le ménage Destouches, Lucette toujours impeccable, sereine, entendue, emportait à bras quelque deux cents kilos de bagages, le reliquat sans doute des fameuses malles, cousus dans des sacs de matelots et accrochés à des perches, un véritable équipage pour la brousse de la Bambola-Bramagance. Un lascar, vaguement infirmier, les accompagnait jusqu'à la frontière, pour aider aux transbordements, qui s'annonçaient comme une rude épopée, à travers cette Allemagne en miettes et en feu. Céline, Bébert sur le nombril, rayonnait, et même un peu trop. Finis les « bombing », l'attente résignée de la fifaille au fond de la souricière. Nous ne pèserions pas lourd dans son souvenir. Le train vint à quai, un de ces misérables trains de l'agonie allemande, avec sa locomotive chauffée au bois. On s'embrassa longuement, on hissa laborieusement le barda. Ferdinand dépliait, agitait une dernière fois son incroyable passeport. Le convoi s'ébranla, tel un tortillard de Dubout. Nous autres, nous restions, le cœur serré, dans l'infernale chaudière. Mais point de jalousie. Si nous devions y passer, du moins le meilleur, le plus grand de nous tous en réchapperait.
                  
Lucien REBATET, Mémoires d’un fasciste II, Pauvert, 1976, p. 218 – 224.

lundi, 01 février 2010

Les résultats de la libération et de l'épuration en Belgique

beeldfoto9.jpgLes résultats de la libération et de l'épuration en Belgique

 

Archives du "CRAPOUILLOT" - 1995

Sans nul doute, la collaboration a connu une plus grande ampleur en Belgique qu'en France. En mai 1940, les services de la Sûreté belge et les autorités françaises commettent une maladresse de taille en arrê­tant tous les partisans de la paix ou de la neutralité qui «ne voulaient pas mourir pour Dantzig»: les com­munistes, juifs de nationalité allemande, italiens anti-fascistes, nationalistes flamands, rexistes et parti­sans de Joris Van Severen, le «national-solidariste thiois», chef d'un «ordre militant», purement idéa­liste, sublime et patriotique. Les policiers belges livrent leurs co-nationaux aux Français qui les traînent de Dunkerque au pied des Pyrénées en leur faisant subir les pires sévices: Léon Degrelle et René Lagrou (nationaliste flamand), qui ont survécu de justesse à ce calvaire nous ont laissé des témoi­gnages poignants: Ma guerre en prison (éd. Ignis, Bruxelles, 1941) et Wij Verdachten (= “Nous, les sus­pects”, Steenlandt, Bruxelles, 1941). Joris Van Severen et son adjoint Jan Ryckoort sont abattus, avec une vingtaine d'innocents, à la sortie du kiosque d'Abbeville, où on les avait enfermés. Après la ca­pitulation de l'armée belge et du roi Léopold III, Paul Reynaud fustige le souverain en usant d'un vo­cabulaire particulièrement maladroit et, du coup, les réfugiés flamands et wallons sont mal accueillis en France, ce qui ruine trente ans d'amitié franco-belge.

 

Les prisonniers politiques de mai 1940 reviennent au pays animés par un ressentiment dont on ne mesure plus guère l'ampleur (1). L'ancienne solidarité franco-belge, sévèrement critiquée par le mouvement fla­mand pendant l'entre-deux-guerres, fait place à une germanophilie qui conduit une frange de l'opinion, fa­vorable aux personnalités arrêtées et déportées dans les camps pyrénéens, à réclamer aux Allemands le retour des deux départements (Nord, Pas-de-Calais), enlevés aux Pays-Bas par Louis XIV et considérés comme d'anciennes «terres impériales». Ces départements sont effectivement placés sous l'égide du gouverneur militaire allemand de Bruxelles, mesure ambigüe destinée à calmer les esprits, sans offenser Vichy. Un an plus tard, la «croisade anti-bolchévique», avec le départ de la «Légion Wallonie» de De­grelle pour le front russe, va éclipser cette pré-collaboration francophobe et inaugurer un «européisme» national-socialiste, qui reprend à son compte certains accents de l'internationale socia­liste. Une bonne part de la collaboration nouvelle ne repose plus sur des réminiscences historiques ou des ressentiments personnels, mais sur une admiration du système social allemand, basé sur la notion de Volksge­mein­schaft,  de «communauté populaire». Les groupes collaborateurs les plus extrémistes sont d'ailleurs is­sus de la gauche et de l'extrême-gauche, où les réflexes patriotiques classiques ne jouaient plus beau­coup: pour ces militants, l'allégeance allait au pays qui avait le système social le plus avanta­geux pour la classe ouvrière, en l'occurrence, l'Allemagne, mère-patrie de la social-démocratie. Et quand Degrelle proclame que les «Wallons sont des Germains de langue romane», ce n'est pas qu'une vile flat­terie à l'é­gard du vainqueur, mais une volonté tactique 1) de participer à un ensemble politique «impérial», où les «Pays-Bas autrichiens», qui allaient devenir la Belgique en 1830, avaient joué un rôle important, no­tam­ment sur le plan militaire, et 2) de ne pas être exclus, en tant que Wallons, d'un «ordre social» qui sé­dui­sait les masses ouvrières du «Pays Noir», dont l'idéologie était «sociale-démocrate» à la mode alle­mande et dont le type de vie était très proche de ceux de la Ruhr ou de la Sarre. Mines et sidérurgie for­gent une solidarité implicite qui va au-delà de tous les autres clivages.

 

Ces quelques faits montrent que la collaboration n'allait pas se limiter aux seuls mouvements nationa­listes, mais se capillariser dangereusement dans tout le corps social. Le gouvernement Spaak-Pierlot  —ou du moins ses vestiges d'après la tourmente—  qui s'était transplanté à Londres, percevait le danger du clivage insurmontable qui se dessinait en Belgique: deux camps antagonistes se faisaient face, les partisans de l'ordre ancien (toutes oppositions sociales sublimées) et les partisans de l'«Ordre Nou­veau». Entre les deux, un établissement fidèle au Roi qui tente d'imposer une voie médiane, de sau­ver l'indépendance du pays, d'avancer quelques-uns de ses pions dans une certaine collaboration «na­tio­na­liste de droite». Mais cet établissement demeure hostile à la IIIième République, au gouverne­ment de Londres, aux communistes et, au sein de la collaboration, aux nationalistes flamands indépen­dantistes et «républicains». Il se méfie bien sûr des autorités proprement nationales-socialistes et table sur les élé­ments traditionnels et conservateurs de la diplomatie et de l'Etat allemands.

 

Dans la rue et les campagnes, surtout à partir de 1943, règne une atmosphère de guerre civile: rexistes et nationalistes flamands, ainsi que les membres de leurs familles, sont abattus sans autre forme de procès, sans distinction d'âge ou de sexe. En 1944, les collaborateurs passent à la contre-offensive qui, à son tour, entraîne de nouvelles représailles: la spirale atteint son horreur maximale à Courcelles en août 1944, quand la «Brigade Z» du parti rexiste venge cruellement la mort des siens, notamment l'assassinat du maire de Charleroi et de sa famille, en exécutant sommairement 27 personnes (2).

 

Ce formidable imbroglio aurait dû, après la victoire des armes anglaises et américaines, être démêlé par une justice sereine, patiente, douée de beaucoup de tact. Il n'en fut rien. Personne n'a mieux stigmatisé cette «justice de roi nègre» que le Professeur Raymond Derine, un éminent juriste de l'Université Catholique de Louvain (3). La justice militaire de l'épuration est une honte pour la Belgique, explique ce ju­riste, pour quatre faisceaux de raisons:

1) Le gouvernement de Londres prépare dès 1942 une épuration sévère, sans plus avoir le moindre con­tact physique avec la Belgique occupée et sans comprendre les motivations réelles, et si complexes, des futurs réprouvés. Paul Struye, Président du Sénat et résistant, écrira dans ses mémoires: “les 20.000 héros revenant de Londres et découvrant en Belgique 8.000.000 de suspects dont 4.000.000 au moins de coupables” (4). La collaboration fonctionnera dès lors à coup de lois rétroactives, hérésie juridique dans tout Etat de droit.

2) Les juridictions d'exception sont essentiellement militaires: elles ont donc tendance à réclamer des pei­nes maximales. Dans ces excès, le ressentiment des vaincus de 1940 et des pensionnaires des Oflag, appelés à prononcer les peines, a joué un rôle prépondérant. Ces militaires n'avaient pas eu de contact avec la Belgique réelle et n'avaient vécu la guerre qu'au travers de fantasmes répétés à satiété pendant de longues années d'inactivité forcée.

3) La nomination de substituts très jeunes et inexpérimentés, tentés de faire du zèle en matière de ré­pression.

4) Enfin, en Flandre, les magistrats civils et militaires appelés à juger les faits de collaboration sont majori­tairement issus de la bourgeoisie francisée, procédurière, marchande, généralement inculte, confinée dans l'étroitesse d'esprit de son pauvre unilinguisme et hostile à toute intellectualité; ces hommes vont tout naturellement être tentés d'éradiquer définitivement une idéologie populaire, intellectuelle, polyglotte, donc ouverte au monde, et plus honnête dans ses pratiques: le nationalisme de libération flamand, opiniâ­tre et infatigable, qui contestait leur pouvoir à la racine. Avec un tel ressentiment, ces individus ne pou­vaient évidemment prononcer une justice sereine. Mais la répression frappera plus durement les intel­lectuels francophones que leurs homologues flamands. Pour plusieurs raisons: le vivier intellectuel fla­mand était presque entièrement “contaminé” par des éléments idéologiques que l'établissement considé­rait “subversifs” par définition tel le populisme romantique qui mettait le peuple au-dessus de toutes les instances étatiques et générait ainsi une contestation permanente de l'Etat belge calqué à l'époque sur le modèle centraliste jacobin. La répression a certes frappé les intellectuels flamands, plus nombreux que leurs collègues wallons, mais les condamnations à mort ont été rares et aucune n'a été suivie d'exé­cu­tion. Le poète Wies Moens, le poète et humoriste Bert Peleman, le prêtre, théologien, philo­sophe et historien de l'art Cyriel Verschaeve ont été condamnés à mort: Peleman a été grâcié, Moens a fui en Hollande (les autorités néerlandaises ont refusé de l'extrader), Verschaeve s'est réfu­gié dans un couvent tyrolien (des militants flamands ramèneront sa dépouille dans son village en 1975). Beaucoup d'écrivains ont été arbitrairement arrêtés, emprisonnés voire maltraités, dans les premières semaines de la libération, mais n'ont été ni jugés ni poursuivis ni condamnés. Ils ont toutefois gardé une ineffaçable rancune contre l'Etat et se sont juré de lui faire payer les avanies subies, même les péca­dilles: l'Etat bel­ge n'a plus reçu l'aval de l'intelligentsia dans son ensemble, qui n'a plus cessé de le déni­grer, de répandre un “mauvais esprit” et d'en saper les assises. En revanche, les responsables politiques flamands, grands idéalistes, payent le prix du sang; le martyrologue est aussi long qu'épouvantable, sur­tout quand on connaît la probité morale des condamnés: Leo Vindevogel, Theo Brouns, Lode Huyghen, Mar­cel Engelen, Karel De Feyter, Lode Sleurs, August Borms...

 

La répression contre les intellectuels, surtout en Wallonie, prendra, dans ce contexte, une tournure dra­matique et particulièrement cruelle, comme si le pouvoir, détenu par des classes en déclin, voulait élimi­ner par tous les moyens ceux qui, par leurs efforts, étaient la preuve vivante de son infériorité culturelle, c'est-à-dire de son infériorité absolue. Paul Colin, le brillant critique d'art qui introduisit l'expres­sion­nisme allemand à Bruxelles et à Paris, le plus talentueux journaliste du pays à qui l'on doit une mer­veil­leuse histoire des Ducs de Bourgogne, est abattu comme un chien dans son bureau à Bruxelles en 1943, son remplaçant Paul Herten sera fusillé en octobre 1944, dans des conditions abominables, qu'a dé­non­cées l'ancien résistant Louis De Lentdecker, écœuré par l'hystérie de cette époque (5). Le phi­lo­sophe José Streel, qui avait pourtant abandonné la collaboration en 1943, est fusillé en 1946 (6) , de mê­me que les journalistes Victor Meulenyser et Jules Lhoste. Pierre Daye, correspondant de Je suis partout, parvient à fuir en Argentine. Raymond de Becker, correspondant avant-guerre de la re­vue Esprit, écope de vingt ans de bagne, de même que Henri De Man, un des plus grands théoriciens socialistes du siècle. Robert Poulet est condamné à mort et attendra sa grâce pendant 1056 jours d'isolement, pour ensuite émigrer à Paris et offrir son grand talent à la presse non-conformiste de France. Parmi les écrivains «prolétariens», d'origine communiste ou socialiste, Pierre Hubermont, animateur des “Cercles Culturels Wallons”, est condamné à vingt ans de travaux forcés et sa carrière est définitive­ment brisée; son jeune disciple Charles Nisolles est fusillé en 1947. René Baert est abattu par des militaires belges en Allemagne en 1945. Son ami le peintre surréaliste Marc Eemans, qui n'a écrit que des articles sur les arts, le tourisme et les traditions populaires, est condamné à huit ans de prison (il en fera quatre). Le brillant germaniste Paul Lespagnard est également fusillé. Le sublime Michel de Ghelderode est insulté, humilié publiquement et chassé de son modeste emploi de fonctionnaire muni­cipal à Schaerbeek. Félicien Marceau se réfugie à Paris, où il deviendra académicien. Simenon, le père du fameux Maigret, se replie à Genève. Hergé, le créateur de Tintin, est importuné à plusieurs re­prises (7) et devra aller vivre sur les rives helvétiques du Lac Léman pendant quelque temps; son col­lègue, l'inimitable caricaturiste Paul Jamin (alias “Jam” puis “Alidor”) est condamné à mort mais heureu­sement ne sera pas exécuté: octogénaire avancé aujourd'hui, sa verve et son coup de crayon rehaus­sent toujours les pages de l'hebdomadaire satirique bruxellois Père Ubu. L'intelligentsia francophone non-conformiste fut littéralement décapitée à la suite de la répression, qui réussit là un coup de maître: plus personne ne peut se faire l'avocat des réprouvés en dehors des frontières, en usant d'une langue très ré­pandue sur la planète.

 

411_1093546879.jpgLes personnalités qui ont émis des critiques sévères à l'encontre de la justice répressive belge, ne nient pas pour autant la nécessité de punitions justes et appropriées, surtout pour trois motifs: 1) Le soutien apporté aux manœuvres arbitraires de l'ennemi, qui ont causé des dommages à la population ou lui ont apporté des souffrances inutiles; en clair, cela signifie réclamer des peines exemplaires pour les auxi­liaires de la police allemande, surtout ceux qui ont agi pour des mobiles vénaux; 2) Le soutien apporté à l'armée ennemie après  la libération du territoire en septembre 1944 (notamment au cours de l'offensive von Rundstedt dans les Ardennes); 3) Les actions qui ne sont pas moralement avalisables (dé­non­cia­tions vénales, etc.). Ces trois faisceaux de motifs qu'avançait l'Action Catholique auraient permis une ré­pression modérée, qui n'aurait pas laissé de séquelles psychologiques graves dans la popu­lation ni induit une frange de l'intelligentsia dans un négativisme permanent et systématique. Malheureusement ces sug­gestions humanistes restèrent lettre morte.

 

A partir de septembre 1943, la terreur prend une ampleur considérable; en 1944, elle fera 740 victimes po­litiques (principalement des collaborateurs). Le nombre d'actes de pur banditisme atteint des proportions jamais vues depuis l'âge sinistre des guerres de religion. Paul Struye était attéré: «Le respect de la vie humaine a disparu. On tue pour un rien. Il arrive qu'un homme soit abattu comme un chien sans qu'on sa­che s'il est victime de justiciers patriotes, de rexistes ou nationalistes flamands, de vulgaires gang­sters, d'une vengeance individuelle ou simplement d'une erreur sur la personne. Des gens armés et mas­qués (...) terrorisent certaines régions, y introduisant des procédés de ku-klux-klan qu'on n'y avait jamais con­nus ou cru possibles» (8).

 

Après la conquête-éclair du territoire belge par les armées britanniques à l'Ouest et américaines à l'Est, des individus mus par une «colère populaire spontanée», surtout orchestrée par les communistes, procè­dent à des arrestations en masse, non seulement de collaborateurs, mais de membres innocents de leurs familles ou de simples patriotes dont les opinions de droite étaient connues. Les hommes politiques mo­dérés des partis traditionnels (libéraux, socialistes, catholiques) sont scandalisés et multiplient les pro­testations, parfois véhémentes sans rien pouvoir changer à la situation; le catholique Verbist s'écrie à la Chambre, fustigeant la “résistance” de l'après-occupation: «Les bourreaux nazis ont fait école» (9). Ces arrestations étaient perpétrées par des personnes privées ou des organismes partisans qui n'avaient aucun pouvoir de justice et n'agissaient que de leur propre chef. 50.000 à 100.000 personnes s'entas­saient dans les prisons, dans des camps de concentration improvisés, dans les cages du jardin zoolo­gi­que d'Anvers, dans les écoles réquisitionnées, etc., alors que les principaux collaborateurs s'étaient re­pliés en Allemagne, continuaient le combat sur le front de l'Est ou travaillaient dans les usines du Reich! Jamais les auteurs de ces actes de terrorisme n'ont été jugés pour leurs crimes et pour s'être arbitrai­re­ment substitué à l'Etat ou à ses services de police.

 

Le 17 décembre 1942, le gouvernement de Londres, agissant sans l'assentiment d'un Parlement élu (!), modifie les articles de loi réprimant l'intelligence avec l'ennemi, en réintroduisant la peine de mort et sur­tout en remplaçant les termes anciens (“a favorisé les desseins de l'ennemi dans une intention mé­chan­te”) par un terme nouveau, plus vague et permettant toutes les interprétations (“sciemment”). Les pré­ve­nus seront donc jugés sur des lois rétroactives non sanctionnées par un Parlement. En mai 1944, les “Lon­doniens” décident de nouveaux renforcements qui ne seront publiés que le 2 septembre, un jour avant l'arrivée des chars de Montgomery à Bruxelles: les condamnés perdront leurs droits civiques pour au moins dix ans, ne pourront plus devenir fonctionnaires, être jurés, experts ou témoins, faire partie d'un conseil de famille, etc. ni exercer les métiers d'enseignant, de journaliste (presse écrite et radiodiffu­sée), d'acteur de théâtre ou de cinéma ni occuper des postes de direction dans une entreprise commer­ciale, une banque, une association professionnelle, une association sans but lucratif (équivalent de l'assoc. loi 1901 en France) de caractère culturel, sportif ou philanthropique. Plus tard, les restrictions se­ront encore plus drastiques, prenant même une tournure ridicule par leur mesquinerie: suppression des indemnités pour les invalides de 1914-18 condamnés pour collaboration, interdiction de s'inscrire dans une université, de recevoir des allocations familiales, d'avoir un compte-chèque postal (!) ou un raccord téléphonique et... de posséder des pigeons voyageurs (!!). 300.000 personnes, plus de 10% du corps électoral de l'époque sont frappées de mesures de ce type (10). En comptant leurs familles, cela fait plus d'un million de personnes jetées dans la précarité et livrées à l'arbitraire.

 

Pourtant, à Londres en 1942, le socialiste Louis De Brouckère ne réclamait que 700 à 900 arresta­tions, son collègue Balthazar, 1500! Le ministre de la justice Delfosse, qui arrive en 1942 à Londres et connaît l'ampleur de la collaboration, réclame 70.000 à 90.000 incarcérations. De Brouckère, rap­portent les témoins (11), l'a regardé ahuri et lui a lancé: cela «nous paraît dangereux, sinon impossible». Du camp de concentration d'Oranienburg-Sachsenhausen, l'ancien ministre libéral Vanderpoorten, avant de mourir, donne des instructions humaines, témoignant de sa grandeur d'âme: «pas d'exécutions, envoyer les chefs, les meurtriers et les dénonciateurs dans un camp au Congo et laisser les autres tels qu'ils sont». Finalement, 405.067 dossiers s'accumuleront sur les bureaux des «auditeurs militaires», après la libération des innocents internés arbitrairement, mais toujours inscrits sur l'une ou l'autre liste noire et privés de leurs droits! Il était bien sûr impossible de traiter une telle masse de dossiers, ni de gé­rer le système pénitentiaire quand les cellules individuelles abritaient de quatre à huit pensionnaires: de cette masse de dossiers, on en a extrait 58.784, on a poursuivi 57.052 personnes dont 53.005 seront con­damnées. Parmi celles-ci, 2940 condamnations à mort, suivies de 242 exécutions; 2340 peines à per­pétuité. 43.093 personnes non condamnées restaient sur la liste noire, ce qui les excluait de l'admi­nistra­tion ou de l'enseignement.

 

Dans son ouvrage sobre et serein, qui est le plus redoutable réquisitoire jamais posé sur la justice belge du temps de l'épuration, le Prof. Derine a énuméré les vices de forme et les aberrations juridiques qui ont entaché cet épisode sombre de l'histoire de Belgique. Son mérite est d'avoir ressorti toutes les critiques rédhibitoires formulées à l'époque par J. Pholien, futur premier ministre du royaume. Ces critiques por­tent essentiellement sur la rétroactivité des lois (une loi pénale ne vaut que pour l'avenir, toute autre dis­position en ce domaine étant aberrante), sur le fait qu'elles ont été imposées par l'exécutif seul, sans sanction du pouvoir législatif et sur le caractère largement “interprétatif” du terme “sciemment” (rem­pla­çant “avec une intention méchante”, cf. supra). Ensuite, le juriste H. De Page remarquait qu'une loi, pour être valable, devait, selon la tradition juridique belge, bénéficier «d'une publicité effective». Or une loi votée en mai 44 qui ne paraît au Journal Officiel que le 2 septembre et est applicable dès le 3, ne bénéficie pas d'une telle publicité. «Il n'est pas admissible d'astreindre tyranniquement, en vertu d'une présomption reconnue matériellement impossible, les citoyens au respect de règles qu'ils ignorent certai­nement» (12). Le recrutement de très jeunes juristes inexpérimentés, pour faire fonction de magistrat dans les tribunaux spéciaux et auxquels on attribuait des pouvoirs exorbitants, quasi illimités, ne pouvait conduire qu'à cette «justice de rois nègres», dénoncée par Pholien (13). Ensuite, le fameux article 123sexies, qui interdisait aux “inciviques” l'exercice de quantité de professions, réintroduisait subrepti­cement la «mort civile», et le montant énorme de certaines amendes exigées équivalait à la confiscation générale des biens et, parfois, à leur mise sous séquestre, toutes mesures abrogées par la Constitution. Autre artifice douteux: le prolongement fictif de l'état de guerre jusqu'au 15 juin 1949, ce qui permettait de maintenir en place les juridictions d'exception et de considérer les conseils de guerre comme étant “en campagne”, de façon à ce que leurs compétences territoriales demeurent illimitées (notamment sur le ter­ritoire allemand). Cet artifice permettait de procéder à des exécutions, contrairement aux dispositions qui supprimaient celles-ci en dehors des périodes de belligérance effective. Parmi les incongruités, rappel­lons que l'Union Soviétique n'était pas alliée à la Belgique qui n'entretenait pas avec elle de relations di­plomatiques. Les volontaires des diverses unités allemandes luttant contre les armées soviétiques n'au­raient normalement pas dû être inquiétés, du moins s'ils n'avaient pas agi sur le territoire belge contre des citoyens belges: pour pouvoir les punir, on a stipulé, dans la loi du 17 décembre 1942, «qu'est allié de la Belgique tout Etat qui, même en l'absence d'un traité d'alliance, poursuit la guerre contre un Etat avec le­quel la Belgique elle-même est en guerre». L'Union Soviétique était donc l'allié d'un allié, en l'occurrence la Grande-Bretagne. Or celle-ci, tout comme la France, n'était pas un allié de la Belgique, mais un simple ga­rant tout comme l'Allemagne, puisque la Belgique était neutre. De surcroît, elle n'était plus tout-à-fait bel­ligérante depuis la capitulation du 28 mai 1940.

 

Une loi du 10 novembre 1945 introduit le système dit «des transactions»: l'accusé accepte sa faute et négocie avec l'«auditeur militaire» le montant de sa peine; s'il accepte la suggestion de l'auditeur, il est condamné à cette peine; s'il refuse, il reçoit une peine plus lourde! Porte ouverte aux pires maquignon­nages, qui n'ont pas grand chose à voir avec le droit... Une loi de 1888 prévoyait la libération anticipée d'un détenu qui avait déjà purgé le tiers de sa peine (ou dix ans en cas de perpétuité). Cette procédure, courante pour les condamnés de droit commun, n'a pas été retenue par l'«Auditorat militaire» pour les condamnés politiques, ce qui induisait une discrimination notable en défaveur de ces derniers.

 

La législation arbitraire de l'épuration belge a conduit le pays dans une situation étonnante pour les cri­tères occidentaux, dénoncée par le doyen de la faculté de droit de l'Université Catholique de Louvain (francophone), le Prof. P. de Visscher: «La législation sur l'épuration civique (...) a (...) donné nais­sance à une masse considérable de citoyens de seconde zone qui se trouvent dans l'impossibilité pra­tique de se réadapter à la vie sociale. La notion même des droits de l'homme, jadis considérés comme in­tangibles par cela même qu'ils tiennent à la qualité d'homme, s'en trouve dangereusement ébranlée de mê­me que le principe fondamental suivant lequel aucune peine ne peut être prononcée sinon par les tribu­naux de l'ordre judiciaire» (14).

 

Le Prix Nobel de médecine flamand, le Prof. C. Heymans a rappelé fort opportunément que l'Occident s'in­surgeait à juste titre contre le sort fait à Monseigneur Mindzenty en Hongrie et au Cardinal croate Stepinac en Yougoslavie titiste mais ne soufflait mot sur le fait que Monseigneur van Assche avait été arrêté arbitrairement en Belgique et torturé jusqu'à ce que mort s'ensuive.

 

Tous ces vices de formes, ces anomalies juridiques, ces entorses aux droits de l'homme, constatés par les plus éminents juristes du royaume, flamands et francophones confondus, devait tout naturellement amener une fraction de l'opinion à réclamer l'amnistie pure et simple, voire la révision de certains procès ou des réhabilitations. Derine remarque que l'établissement belge et, pourrions-nous ajouter, ses auxi­liaires communistes ou gauchistes (à qui on avait confié le «sale travail» des arrestations arbitraires en leur garantissant l'impunité), n'a cessé de réclamer l'amnistie en Espagne franquiste, au Chili ou en Afrique du Sud (Mandela) pour mieux cacher derrière un écran de fumée idéologique et médiatique la cruelle réalité belge en ce domaine. Avocat d'une amnistie sereine, dégagée de tout carcan idéologique collaborationniste, Derine rappelle que la France a résolu le problème de l'amnistie par un train de lois (1951, 1953, 1959) et que l'Union Soviétique a procédé de même dès le 18 septembre 1955 (y compris pour les soldats de l'armée Vlassov et pour les auxiliaires de la police allemande, pour autant qu'il n'y ait pas eu assassinat ou torture). Les termes du décret soviétique étaient les suivants: «Afin d'offrir à ces ci­toyens la possibilité de retrouver une existence et du travail convenables et de redevenir des membres utiles à la communauté populaire».

 

Aujourd'hui, en 1994, la Belgique, contrairement à l'URSS d'avant la perestroïka, n'a toujours pas accordé l'amnistie et certains citoyens subissent encore les séquelles de la répression. Le vaste mouvement en faveur de l'amnistie a touché toute l'opinion flamande, tous partis confondus. Mais cette mobilisation n'a servi à rien. En 1976, le juriste A. Bourgeois constatait que 770 dossiers de séquestre (théoriquement anti-constitutionnels!) n'avaient pas encore été refermés, 3500 à 4000 citoyens étaient encore privés de certains de leurs droits, 10.000 citoyens environ n'avaient pas récupéré leurs droits politiques et un nom­bre incalculable d'anciens fonctionnaires et enseignants n'avaient jamais pu réintégrer leur fonction et a­vaient dû choisir une autre carrière. Des milliers d'autres étaient toujours privés de certains droits con­crets comme le remboursement de dommages de guerre, des limitations dans le montant de leur re­trai­te, etc. (15).

 

Le combat en faveur de l'amnistie revêt surtout une dimension morale: si la Belgique avait agi humaine­ment comme le Soviet Suprême en septembre 1955, elle aurait cessé d'être une démocratie fictive, aurait aligné son comportement politique sur les principes généraux inscrits dans la Charte des droits de l'hom­me et du citoyen et prouvé à l'ensemble de ses citoyens et au monde  qu'elle est en mesure de ga­rantir leurs droits comme n'importe quel pays civilisé. En proclamant l'amnistie, elle aurait abjuré la phase la plus noire de son passé et démontré aux prophètes de la haine, qui sont si tenaces, que toute entorse au droit doit nécessairement, un jour, être effacée et que l'obstination dans la rancune est la pire des va­nités humaines.

 

Elsa Van Brusseghem-Loorne.

 

Notes:

Les lecteurs français liront avec profit les pages que Paul Sérant consacre à la répression belge dans Les vaincus de la libération, R. Laffont, Paris, 1964.

(1) Maurice De Wilde, De Kollaboratie, deel 1, DNB, Anvers/Amsterdam, 1985. L'histoire de ce livre est in­téressante à plus d'un titre; son auteur, présentateur de la télévision d'Etat néerlandophone en Belgique, dont la sensibilité est nettement de gauche, a animé une série télévisée sur la collaboration qui l'a améné progressivement à réviser ses jugements et à rendre justice aux idéalistes. Dans ce premier tome de sa fresque, il démontre avec brio que si Belges, Français et, dans une moindre mesure, Britanniques n'a­vaient pas procédé à des arrestations arbitraires en mai 1940, et si Joris Van Severen n'avait pas été as­sassiné, la collaboration n'aurait pas connu une telle ampleur. Maurice De Wilde réouvre là le dossier d'un contentieux franco-belge qui n'a jamais été réglé.

(2) Alfred Lemaire, Le crime du 18 août ou les journées sanglantes des 17 et 18 août 1944 dans la région de Charleroi, Imprimerie/Maison d'éd. S.C., Couillet, 1947.

(3) Prof. Raymond Derine, Repressie zonder maat of einde?, Davidsfonds, Louvain, 1978.

(4) Paul Struye, Justice! Que faut-il penser de la répression?,  texte d'une conférence prononcée à Bruxelles le 24 décembre 1944 avec le futur ministre catholique A. Verbist.

(5) Louis De Lentdecker, Tussen twee vuren,  Davidsfonds, Louvain, 1985.

(6) Jean-Marie Delaunois, De l'Action Catholique à la collaboration, Ed. Legrain/Bourtembourg, Cour­cel­les/Bruxelles, 1993. Biographie de José Streel, version grand public d'un mémoire défendu à l'Université Catholique de Louvain, ayant obtenu la plus grande distinction. Capital pour comprendre le rexisme. Pour saisir l'ampleur de la collaboration intellectuelle en Flandre, se référer à l'ouvrage de Herman Van de Vij­ver, Het cultureel leven tijdens de bezetting, DNB/Pelckmans, Kapellen, 1990.

(7) Thierry Smolderen & Pierre Sterckx, Hergé, portrait biographique,  Casterman, Tournai, 1988.

(8) Paul Struye, L'évolution du sentiment public en Belgique sous l'occupation allemande,  Bruxelles, 1945.

(9) Conférence prononcée à Bruxelles le 24 décembre 1944, aux côtés de Paul Struye, cf. note (4).

(10) A. Bourgeois, «Over Amnestie», in Kultuurleven, août-sept. 1976; «Balans van de repressie en epu­ratie», ibid.; «Opruiming van de gevolgen der repressie», ibid.

(11) Témoignage du Ministre des Colonies du gouvernement de Londres; A. de Vleeschauwer, le 29 mars 1949.

(12) H. de Page, Traité élémentaire de droit civil belge,  tome 1, 1962, 3ième éd.

(13) Actes du Parlement, Sénat, 16 décembre 1948, p. 235.

(14) P. de Visscher, «Les nouvelles tendances du droit public belge», in La Revue Nouvelle, 1951, p. 125.

(15) A. Bourgeois, cf. articles cités en note (10).

 

samedi, 05 décembre 2009

Bertrand de Jouvenel, son amitié pour Pierre Drieu La Rochelle et les non-conformistes français de l'entre-deux-guerres

jouvenel.jpgSéminaire de «Synergon-Deutschland», Nordhessen, 31 octobre 1998

 

Bertrand de Jouvenel, son amitié pour Pierre

Drieu la Rochelle et les non-conformistes

français de l'entre-deux-guerres

 

Le 11 novembre 1918, à onze heures, le vieux continent bascule dans le XXième siècle. L'Europe, qui dépose enfin les armes au soir de quatre années de lutte fratricide, peut contempler horrifiée les derniers vestiges de sa grandeur déchue. Élevés dans le culte positiviste du demi-dieu Progrès, fils de la déesse Raison, dix millions d'hommes, de frères, sont venus expirer sur les rivages boueux, semés de ferraille, tendus de barbelés, de la modernité. Nouveau Baal-Moloch d'une nouvelle guerre punique. Le premier, le poète Paul Valéry baisse les yeux devant tant de gâchis, et soupire: «Nous autres, civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles (…) Nous sentons qu'une civilisation a la même fragilité qu'une vie». Malgré les sirènes bergsoniennes, dont le cri s'est depuis longtemps emparé des prophéties de Nietzsche, la France se réveille seulement de ses utopies. Il lui aura fallu pour en arriver là un million et demi de morts, deux fois plus de mutilés, une économie exsangue, un peuple tout entier anémié. Si pour les politiques unanimes, le responsable du massacre, c'est l'Allemand dans son essence, du Kaiser au plus petit fonctionnaire des postes impériales, la jeunesse pour sa part sent confusément que c'est toute l'Europe qui entre en décadence, menaçant jusqu'en leur tréfonds les bases de la civilisation.

 

De quelque nationalité qu'elle soit, le diagnostic de l'intelligentsia européenne est le même: 1918 marque l'entrée fracassante dans la «crise de civilisation». Des voix s'élèvent, d'Allemagne bien sûr avec Oswald Spengler et son Déclin de l 'Occident en 1922, mais aussi depuis la Grande-Bretagne, en les personnes de Norman Angel et le Chaos européen en 1920, ou Arnold Toynbee, qui publie L 'Eclipse de l 'Europe en 1926. Mais aussi depuis les exilés russes avec le Nouveau Moyen Age de Nicolas Berdiaeff (1924) sans oublier la France, Henri Massis et Défense de l'Occident en 1926, René Guénon, La Crise du Monde Moderne (1927) et André Malraux. Celui-ci, porte-parole des littérateurs à tendance révolutionnaire qui n'ont pas connu l'expérience de la guerre, embrasse toute la problématique de son époque dans son opuscule paru en 1926 et intitulé La Tentation de l'Occident .Il écrit: «La réalité absolue a été pour vous Dieu puis l'homme; mais l'homme est mort, après Dieu, et vous cherchez avec angoisse celui à qui vous pourriez confier son héritage. Vos petits essais de structure pour des nihilismes modérés ne me semblent plus destinés à une longue existence...». A droite comme à gauche de l'échiquier politique la désorientation et la révolte sont grandes, et l'on s'insurge contre une société qui a ainsi pu envoyer à la boucherie ses enfants pour le seul bénéfice de la bourgeoisie capitaliste. Beaucoup cherchent alors le salut à venir dans la révolution et se tournent vers un ordre nouveau qui mobiliserait toutes les énergies pour sauver le pays du marasme. Foulant au pied les vieilles chapelles partitocratiques, la jeunesse intellectuelle entre en ébullition dans ses deux décennies 1920-1930, appelant de ses vœux à l'Europe par-delà les patries, à une véritable tabula rasa contre la vieille bourgeoisie molle, fautive du charnier européen, tombeau de la civilisation.

 

Une mentalité générationnelle propre

 

Transcendant les querelles idéologiques, aspirant à prendre les rênes du pouvoir, cette fraction militante, éclatée en divers courants communément regroupés sous l'étiquette «non-conformiste», voit émerger quelques figures marquantes, pour la plupart issues des grands partis traditionnels. L'historien Philippe Burrin, discutant les thèses exprimées par Zeev Sternhell sur le «fascisme français», est arrivé au fil de ses recherches à sérier une mentalité générationnelle propre, unie dans la multiplicité des personnes, des revues, des cercles. Sur le débat non encore clos autour de l'imprégnation du phénomène fasciste sur ses différents mouvements, et par ricochet leur propre part de responsabilité dans l'émergence d'un large courant d'opinion favorable au fascisme (la thèse de la «nébuleuse concentrique fascistoïde» développée par Zeev Sternhell), il est convenu de scinder «l'esprit des années 30» en trois tendances:

- la Jeune Droite de Thieny Maulnier, brillant khâgneux dissident de l'Action Française,

- Esprit d'Emmanuel Mounier,

- et Ordre Nouveau d'Alexandre Marc.

Trois courants autour desquels gravitèrent de plus petites structures telles que Combat ou Réaction. Toutes convergeant vers une commune volonté de rompre avec le «désordre établi» pour un cornmunautarisme fédéral européen

 

Mais à trop focaliser leur travail sur les seules années 30 —relégant par là le mixtum compositum non-conformistes à une émanation supplémentaire de la pensée de droite face à l'hitlérisme—, les chercheurs en sont venus à oblitérer deux faits majeurs de la généalogie non-conformiste: la large provenance d'éléments de gauche, à l'apport théorique considérable pour le développement futur du courant personnaliste, et ce qu'on pourrait définir par esprit de contradiction d'«esprit des années 20», où seront jetées toutes les données de la mouvance.

 

Parmi cette nébuleuse, deux personnalités radicales-socialistes émergent: Bertrand de Jouvenel et Pierre Drieu la Rochelle. En marge du non-conformisme, dans le sillage du politicien Gaston Bergery, Jouvenel et Drieu seront de toutes les aventures intellectuelles de l'entre-deux-guerres. De la collaboration au périodique La Lutte des Jeunes à l'écriture d'essais théoriques inspirés de Henri de Man et au New Deal, en passant par des sommets d'amitié franco-allemande et l'engagement désespéré auprès du PPF doriotiste à la veille de 1939.

 

«De ces groupes, note le ténor du non-conformisme Jean de Fabrègues dans son livre Maurras et son Action Française, à ceux qui font la revue Plans avec Philippe Lamour ou à Alexandre Marc, ou à la Lutte des Jeunes avec Bertrand de Jouvenel et Pierre Andreu, ou à l'Homme Nouveau (...) ou même à Esprit avec Mounier et Izard, court une sorte de commune réaction. On écrira un jour: «la génération de 1930» et c'est vrai». Drieu Jouvenel, deux vies dans le siècle.

 

Deux voyageurs dans le siècle:

 

«Une génération forme un tout. Ceux qui lui appartiennent ont beau différer par leurs principes, leurs conditions, leurs natures? Ils sont plus près les uns des autres que de leurs pères ou de leurs fils. A subir les mêmes contagions, à se mêler aux mêmes combats, à se soumettre aux mêmes modes, aux disciplines sociales, aux conséquences des mêmes découvertes, ils ont acquis une unité morale, une ressemblance physique qu'ils ne remarquent point mais qui paraîtra flagrante à la postérité lorsqu'elle lira leur œuvre ou regardera leurs images». Ce n'est pas à Bertrand mais à son père, Henry de Jouvenel (1), qu'il revient d'avoir le mieux exposé dans La Paix Française, témoignage d'une génération (1932), ce que Denis de Rougemont nommera, pour sa part, «communauté d'attitude essentielle» dans le Cahier des Revendications de la NRF.

 

Dès à partir du milieu des années 20, «années décisives» s'il en est, la contestation s'est amplifiée parmi les rangs de la gauche. Motivé par la marche sur Rome victorieuse de Mussolini, par l'inquisition anti-trotskiste et l'excommunication de l'Action Française, le projet d'une «troisième voie» nationale se fait jour. Rénovation du politique, dynamique jeune, égale réfutation des modèles collectiviste et libéral, libération spirituelle et matérielle de la personne sont au centre des priorités. Tandis que Georges Valois, ancien animateur des Cahiers du Cercle Proudhon, fonde le Faisceau en 1925, un sémillant député radical-socialiste, Gaston Bergery, coordonne la fronde des «Jeunes Turcs» où s'illustre un journaliste fraîchement sorti de l'Université, Bertrand de Jouvenel, qu'inspire le thème de la «Quatrième République» défendu par Bergery. 1928 sera une année capitale pour Jouvenel.

 

Brillant combattant de 14-18, Bergery est rejoint au sein de la tendance réformatrice par un littérateur avec qui il s'est lié en 1916, Pierre Drieu la Rochelle. Mis en présence l'un et l'autre, Jouvenel et Drieu se rejoignent sur leurs espoirs européens, leur foi dans la SDN. Drieu a déjà publié quatre essais pro-européens à l'époque, Etat Civil (2), Mesure de la France (3), Le Jeune Européen (4) et Genève contre Moscou (5), où quatre thématiques essentielles se rejoignent:

- le patriotisme européen,

- la haine de la démocratie libérale,

- la crise spirituelle de l'Europe devant l'essor technologique,

- le socialisme éthique.

«L'Europe se fédérera, ou elle se dévorera, ou elle sera dévorée», écrit-il dans Mesure de la France.

 

Dans l'orbite de Bergery gravite un jeune éditorialiste, Jean Luchaire. Directeur du mensuel pacifiste Notre Temps depuis 1927, il n'hésite pas à ouvrir ses colonnes tant à l'équipe du Faisceau de Valois qu'aux idées révisionnistes du Belge Henri De Man, dont le planisme est divulgué en France par l'opuscule d'André Philip, Henri De Man et la crise doctrinale du socialisme.

 

Européisme et socialisme

 

jouvenel7777.jpgParues en 1928, les thèses de De Man impressionnent vivement Jouvenel, cependant que de nouveaux cercles d'inspiration planiste se constituent: X-Crise, Plans, Nouvelles Equipes. Le 31 octobre 1928, le premier exemplaire du journal La Voix sous la direction de Jouvenel sort de presse. De préoccupation socio-économique, le périodique expose un programme dirigiste qui entend se conformer aux nouvelles nécessités du temps:

«Assurer à la classe ouvrière un niveau de vie convenable par une politique de logement et un vaste système d'assurances (...)

«Assurer au peuple entier l'instruction gratuite, la sélection des plus aptes (...)

«Assurer le développement méthodique de la production de la production, selon un vaste plan qui encourage l'initiation individuelle.

«Assurer à l'Etat la compétence, à l'administration la promptitude, par la mise en œuvre des principes syndicalistes.

«Assurer la paix entre les peuples par l'arbitrage obligatoire

«Assurer la solution des problèmes économiques et sociaux par leur internationalisation.

«Voilà notre programme».

 

Simultanément paraît aux éditions Valois son premier livre, L'Economie Dirigée— Le Programme de la Nouvelle Génération. Jouvenel n'est pas le premier intellectuel du milieu luchairien à être publié par Georges Valois dans sa «Bibliothèque Nationale». Gaston Riou y a déjà sorti Europe, ma patrie et Luchaire s'apprête lui-même à y imprimer Une génération réaliste pour janvier 1929.

 

Européisme et socialisme réformiste forment les bases des revendications communes aux non-conformistes de gauche. Ni exaltée, ni utopiste, L'Economie Dirigée arrive en librairie pour son 25ième anniversaire. La recherche d'une marche économique socialement bénéfique cimente l'ouvrage. L'idée de plan est omniprésente. D'esprit saint-simonien selon ses propres propos, L'Economie Dirigée assigne aux industriels une mission sociale dans le développement harmonieux de la nation. Son dirigisme n'impose pas, mais incline la production grâce à la création d'un inventaire des possibilités de production nationale dont disposeraient les gouvernants. Novateur, son ouvrage récuse Wall Street comme Moscou et envisage un système de répartition des richesses équilibré, ni libertarien ni étatiste. «Au XlXième siècle, le travail a été la vache à lait du capital, au XXième siècle, le capital sera la vache à lait du travail» écrit-il alors, plein d'enthousiasme. Gorgée d'espoir, son corpus doctrinal élaboré, la jeune intelligentsia «rad-soc» marche à l'Europe. Le tremblement de terre américain du krach de 1929 est encore loin de faire ressentir ses secousses de ce côté de l'Atlantique, et les non-conformistes entendent œuvrer à la réconciliation franco-allemande concomitamment aux efforts de la Société des Nations. La jeunesse à la rescousse de ses pères. Non-conformistes et révolutionnaires-conservateurs se rencontrent pour relever l'étendard de Prométhée.

 

«Europe, Jeunesse, Révolution!»

 

«L'esprit de revanche de l'Allemagne a hanté ma jeunesse». La confession de Bertrand de Jouvenel n'est pas celle d'un cas isolé. La signature du Traité de Paix, où pas un Allemand ne fut convié à discuter des articles, est vécue par la jeune génération comme une injustice sans précédent dans l'histoire des relations européennes. L'article 231 du Traité de Versailles, qui reconnaît seule fautive l'Allemagne, entérine son dépeçage et la surcharge d'indemnités écrasantes, offense l'esprit européen qu'est censée défendre la Société des Nations. Et malgré la ratification des accords de Locarno, on sait l'édifice briandiste fébrile.

Humiliée, rejetée dans la crise économique par l'occupation de la Ruhr, I'Allemagne weimarienne peut à tout moment basculer. A l'esprit de réconciliation, la NSDAP montant rétorque par l'esprit de revanche. C'est à la jeunesse, pensent Jouvenel et Drieu, qu'il incombe de réaliser l'unité européenne.

 

Visionnaire mais surtout alarmiste, Drieu clame à qui veut l'entendre que «l'Europe ne peut pas vivre sans ses patries, et certes elles mourraient si en les tuant elle détruisait ses propres organes; mais les patries ne peuvent plus vivre sans l'Europe». Jouvenel et Drieu conjuguent leurs efforts et achèvent coup sur coup les manuscrits de Vers les Etats-Unis d'Europe (6) et L'Europe contre les Patries, deux essais prophétiques, pacifistes et antimilitaristes, fédéralistes et socialistes, en librairie en 1931. Raillant la devise de l'Action Française, «Tout ce qui est national est nôtre», Jouvenel place en sous-titre l'exorde suivant: «Tout ce qui est international est nôtre». Et de fait, depuis 1929, les jeunes radicaux se sont joints en un «front commun de la jeunesse intellectuelle», associant deux groupes:

- «l'Entente franco-allemande des étudiants républicains et socialistes» (lié au Deutscher Studentenverband)

- et le «Comité d'Entente de la jeunesse pour le rapprochement franco-allemand»,

initié par Jean Luchaire et Otto Abetz, dont le destin croisera à maintes reprises les routes de Drieu et Jouvenel.

 

Une connivence qui se matérialise en juillet-août avec la tenue des premières rencontres du «Cercle de Sohlberg», suivies en septembre d'un sommet à Mannheim, en août 1931 du congrès de Rethel auquel participe Jouvenel avec Pierre Brossolette. Au cours de ces réunions étudiantes, les deux parties s'entendent à récuser unilatéralement les clauses de Versailles et prônent de concert une réponse organique énergique au déclin de la civilisation.

 

Placées sous le credo de «révolution spirituelle», les intervenants du F.C.J.I. divergent cependant, césure majeure, sur la forme que devra prendre le nouvel ordre européen. Au nationalisme classique des Français, politique et culturel, s'oppose l'idée de «Reich» allemand, d'essence völkisch pour la plupart. Mais refus du nationalisme intégral comme de l'internationalisme réunissent les collectifs présents. Malheureusement ces rencontres se solderont par un échec. Deux événements de première importance dans le devenir des relations franco-allemandes vont torpiller les projets du Front Commun. En France d'abord, où la crise a atteint l'économie en 1931, la victoire ingérable du Cartel des Gauches aux législatives en 1932 débouche sur l'instabilité politique. Ni les Tardieu, Blum, Daladier ou Laval ne paraissent en mesure de répliquer à l'inertie qu'avaient manifestée avant eux les Clemenceau, Poincaré et Briand. Précipitées par la récession économique et la corruption des institutions les émeutes du 6 février 1934 poussent les intellectuels français à se repositionner par rapport a une nouvelle donne: fascisme et antifascisme. En Allemagne, par l'accession à la chancellerie d'Adolf Hitler en 1933, qui enterre la détente franco-allemande et sonne le glas du rêve lorcanien de désarmement. Déjà, la mort d'Aristide Briand, le 7 mars 1932, le jour même où Hitler obtint ses fatidiques 37% aux élections présidentielles, n'avaient pas manqué d'éveiller les craintes du Cercle de Sohlberg. Chacun avait compris que s'évanouissait le rêve d'une Europe fédérale. Au congrès de Francfort mené en février 1932 par Alexandre Marc d'Ordre Nouveau et Harro Schulze-Boysen de Planen succède en avril 1933 une rencontre à Paris sous l'impulsion de Luchaire avec, aux côtés de Drieu, Jouvenel et Fabre-Luce, des représentants des Jeunesses Radicales, du Sillon Catholique, de Jeune République, et du côté allemand des émissaires du nouveau régime. Ce colloque marque la fin des illusions et entérine le déclin du Front Commun.

 

Les réunions de Berlin et du Claridge, organisées par Jouvenel, Abetz et Kirchner, rédacteur en chef de la Frankfurter Zeitung passé au national-socialisme, destinées à «jeter les bases d'une société de coopération intellectuelle groupant l'élite (des) deux pays» (7), scellent logiquement le refroidissement des gouvernements français et allemand, dans un contexte nouveau de radicalisation des positions idéologiques. Des rencontres rhénanes ne subsistera que le goût amer d'un parallélisme d'idées dans le rejet, non dans les solutions proposées. A l'arrivée de Hitler, Bergery opposera désormais au “ni Droite ni Gauche” une nouvelle ligne stratégique marquant le retour du politique dans une logique de tensions nationale et internationale: démocratie contre totalitarisme.

 

Un exercice tercériste: “La Lutte des Jeunes”

 

La victoire du Cartel des Gauches en 1932 n'apporte que déception à Gaston Bergery, qui trahit son ambition d'un parti unitaire de la gauche. Rongeant son frein, il claque la porte du parti radical-socialiste en mars 33 et annonce simultanément la formation d'un Front Commun, anticipant le Front Populaire de 1936, qu'il veut antifasciste et anticapitaliste. Déat au nom des néo-socialistes et Doriot, venu sans autorisation du Parti Communiste, répondent présents. Drieu et Jouvenel rejoignent le mouvement et lancent début 1934 un bimensuel, La Flèche, qui expose les vues du Front Commun.

 

Drieu se cherche alors et oscille entre sa fascination pour l'efficacité communiste et son attirance pour l'héroïsme fasciste. L'idée d'une troisième voie lui apparaît de plus en plus comme une vue de l'esprit. Son chef-d'œuvre, Gilles, où Bergery parait sous les traits de Clérences, évoque ses tergiversations. La réponse ne se fait pas attendre. Pareils à Gilles, Drieu et Jouvenel vivent le 6 février 1934 comme un véritable électrochoc. Jouvenel prend la décision de fonder son hebdomadaire, qu'il intitule La Lutte des Jeunes. Au sentiment sourd d'une France passive, avachie a répondu la jeunesse descendue dans la rue. Mounier dans Esprit s'exalte pour cette «nouvelle génération», «neuve et hardie, qui sauve notre pays d'être le plus réactionnaire d'Europe»; Drieu, au comble de la joie, écrit: «On chantait pêle-mêle la Marseillaise et l'Internationale. J'aurais voulu que ce moment durât toujours». Plus circonspect, Jouvenel mesure pourtant l'émergence opportune d'un bloc de la jeunesse. Fidèle à la ligne non-conformiste, La Lutte des Jeunes s'adjoint la collaboration d'intellectuels d'horizons aussi divers que Mounier, Brossolette, Gurvitch, Beracha, Lacoste, Andreu. Et toujours Drieu.

 

Si Zeev Sternhell ne voit la que «fascistes, anti-démocrates et anticapitalistes» optant pour «un régime autoritariste et corporatiste» (simple préfiguration en somme de la Révolution Nationale pétainiste), le programme publié en première page de La Lutte des Jeunes est autrement plus réformiste et d'orientation planiste: «(...) Il faut “désembouteiller” les professions en permettant aux vieux de se retirer. Et il faut ainsi assurer l'embauchage des jeunes. Il ne suffira point de multiplier les stades, de faciliter la pratique du sport, il faudra encore permettre aux jeunes de vivre en pleine campagne durant un mois de l'année au moins (...) Où est la solution? Dans les camps de jeunesse qui peuvent être établis sur les domaines de l'Etat (...) C'est dans de pareils camps qu'une partie de la jeunesse chômeuse pourra être établie, y suivent des cours de formation professionnelle, travaillent dans des ateliers coopératifs».

 

Jouvenel rompt à son tour avec le Parti Radical mais se démarque de Bergery dont il pressent la perte de vitesse. Drieu devient le théoricien de la convergence. Seul il se réclame dorénavant du fascisme, écrivant le 11 mars 1934 dans sa chronique: «Il faut un tiers parti qui étant social sache aussi être national, et qui étant national sache aussi être social (...) il ne doit pas juxtaposer des éléments pris à droite et à gauche; il doit imposer à des éléments pris a droite et à gauche la fusion dans son sein». Il s'agit de ramener «les radicaux désabusés, les syndicalistes non fonctionarisés, les socialistes français, les anciens combattants et les nationalistes qui ne veulent pas être dupes des manœuvres capitalistes». Telle est la thèse de son livre Socialisme fasciste (8). Dans la foulée, Jouvenel lance des «Etats Généraux de la Jeunesse» auxquels prennent part une cinquantaine de groupes.

 

Le planisme de De Man, l'Union Nationale de Ramsay McDonald et le New Deal de Roosevelt

 

Où que se tourne le regard de Jouvenel, le triomphe du planisme le convie à s'en faire le propagateur français. En Belgique, c'est l'alliance que concluent à la Noël 33 Paul Van Zeeland, du parti catholique, premier ministre, et Henri De Man, vice-président du Parti Ouvrier Belge (POB), nommé ministre de la «résorption du chômage». En Grande-Bretagne, c'est la constitution d'un cabinet d'Union Nationale par Ramsay Mc Donald, chef du Labour Party et premier ministre britannique. Aux USA enfin, avec le 4 mars 1933 I'investiture de Franklin Delano Roosevelt, qui réoriente l'économie selon le modèle du New Deal. Un premier voyage effectue en Amérique fin 1931, ponctué d'un livre, La Crise du capitalisme américain, avait convaincu Jouvenel des tares intrinsèques, «génétiques» du système capitaliste. La victoire des Démocrates signe le retour de Washington sur Wall Street, d'un pouvoir volontaire, héroïque, d'un gouvernement qui gouverne. Le keynésianisme rooseveltien, que Jouvenel définit comme jumeau du socialisme alternatif de De Man, intègre pleinement sa vision économique: «Mais ce qui intéresse la prospérité de la nation, et du même coup sa puissance, ce sont les dépenses faites par les entreprises pour produire et pour investir en vue de produire plus et autre chose, et ce sont les dépenses faites par les travailleurs pour consommer plus et autre chose. L'harmonie entre ces catégories de dépenses et leur continuité, voilà qui est incomparablement plus important que l'équilibre budgétaire». Des propos criants d'actualité.

 

La Lutte des Jeunes n'était initialement conçue par Jouvene1 que comme le tremplin vers une nouvelle formation politique résolument d'avant-garde, et Drieu ne pense pas autrement. Aussi, quand les «Etats Généraux» marquent leurs premiers signes d'essoufflement, les deux intellectuels reportent aussitôt leur attraction sur la formation la plus originale de l'époque, le Parti Populaire Français de Jacques Doriot.

 

Grandeur et misère du doriotisme

 

En mai 1934, alors que paraissait le premier numéro de La Lutte des Jeunes, Jacques Doriot, meneur chahuteur et adulé du PC, est exclu de l'Internationale Communiste. Maire de Saint-Denis depuis 1931, le 6 février 1934 a pour lui aussi été décisif. Sans attendre la permission du parti. Doriot a mis sur pied un comité antifasciste dans sa ville et appelé à l'union de la gauche. Mal lui en prend car à l'époque la formule stalinienne du «social-fascisme» est encore de rigueur. Réélu maire en 1935, député en 1936, il fonde le PPF le 28 juin 1936 en réaction au Front Populaire.

 

D'emblée, le «Grand Jacques» attire à lui de nombreux intellectuels, dont Drieu et Jouvenel, qui le choisissent, l'un pour son attente d'un «nationalisme révolutionnaire» authentique, l'autre dans l'optique d'un programme planiste complet. Tous deux collaborent à la rédaction des périodiques L'Émancipation Nationale et La Liberté. Si Drieu justifie son adhésion par le nihilisme qui le gagne: «Il n'y a plus de partis en France, il n'y en a plus dans le monde... Il n'y a plus de conservateurs parce qu'il n'y a plus rien de nouveau. Il n'y a plus de socialistes parce qu'il n'y a jamais eu de chefs socialistes que des bourgeois et que tous les bourgeois depuis la guerre sont en quelques manières socialistes», Jouvenel s'appuie pour sa part sur les propres dires de Doriot: «Je ne veux copier ni Mussolini, ni Hitler. Je veux faire du PPF un parti de style nouveau, un parti comme aucun autre en France. Un parti au-dessus des classes (...)».

 

Accédant avec Drieu au bureau politique du parti en 1938, Jouvenel se fait l'avocat du planisme. Une fois de plus, la déconvenue est à la hauteur de leurs souhaits. Privé de son électorat traditionnel, le PPF compense ses pertes par un vote de droite qui l'attire vers le conservatisme le plus étriqué. Alors que Drieu s'éloigne, accusant Doriot d'abandonner son «fascisme révolutionnaire» pour un «fascisme réactionnaire» de compromission, Jouvenel constate l'échec du «socialisme à la française» qui l'avait mené au doriotisme. Définitivement sevré du PPF au soir des accords de Munich, que Doriot par pacifisme applaudit, Jouvenel rend sa carte en janvier 1939, ulcéré de la dérive antisémite du parti. Non sans avoir publié, ultime rebuffade devant les orages qui naissent au-dessus du continent, Le réveil de l'Europe. Relégué parmi les penseurs d'extrême-droite, Jouvenel devra s'adresser à Gringoire et Candide pour ses articles. Drieu poursuivra en solitaire sa carrière finalement plus anarchique que fasciste.

 

Faisant le point sur ses dix ans de revendication non-conformiste, Jouvenel confiera, dans son recueil de mémoires Un voyageur dans le siècle: «Nous étions une génération raisonnable, soucieuse de l'avenir, souhaitant que ce fut un avenir de réconciliation et de paix, et un avenir de progrès économique et social. Nous ne faisions pas de rêves. C'étaient hélas nos dirigeants qui rêvaient». Drieu suicidé en 1945, après que Jouvenel, réfugié en Suisse pour actes de résistance, ait vainement tenté de le retenir lors d'une de ses visites en 1943, celui-ci poursuivra son œuvre. Dénonçant l'inadaptation des appareils philosophiques et politiques aux mutations du monde moderne.

 

Aujourd'hui réduit à l'archéologie de l'histoire des idées, le courant anti-conformiste aura considérablement pesé après-guerre sur la génération fédéraliste des années 50, à l'origine du Conseil de l'Europe. Et quoi qu'en dise Zeev Sternhell, «l'esprit des années 30» n'aura pas été que le compagnon de route du fascisme. Michel Winock, historien issu des rangs d'Esprit, rappelle à juste titre le foisonnement de points de vue que Drieu et Jouvenel illustreront dans leur amitié: «Beaucoup de matière grise avait été dépensée. De tous ces plans, de ces programmes, de ces utopies, il reste seulement des archives quand la critique des souris n'a pas eu le temps de faire son œuvre. Néanmoins, quelques idées-forces germèrent, certaines pour alimenter la Révolution Nationale, où bon nombre de ces jeunes gens se retrouvèrent (ndlr: on pense à Luchaire, Doriot et Bergery), d'autre pour nourrir les programmes de la Résistance pour une France libérée et rénovée. On avait assisté à un feu d'artifice de la jeunesse intellectuelle. Les étincelles de quelques fumées persisteront». (extrait de Le Siècle des intellectuels, Seuil, 1997).

 

Nul doute que la pensée fédéraliste, telle que définie par Bernard Voyenne, aura abondamment puisé dans le personnalisme. Pilotes du mouvement, les revues La Fédération et Le XXème Siècle Fédéraliste compteront ainsi parmi leurs parrains les signatures de Halévy, Andreu, Daniel-Rops, Rougemont et bien sûr Jouvenel.

Juste reconnaissance pour celui qui dépassant les clivages aura aussi bien collaboré à Vu qu'à Marianne, à L 'Œuvre qu'à Paris-Soir. Pour autant, Jouvenel se détachera rapidement des tumultes politiques de l'après-guerre, navré de l'imprévision des hommes: «De 1914 à 1945, I'Europe se sera quasiment suicidée, de même que la Grèce dans sa guerre de Trente Ans. Et comme la Grèce s'était retrouvée par la suite exposée aux influences contraires de la Macédoine et de Rome, de même l'Europe entre la Russie et les Etats-Unis». Après La défaite, livre publié chez Plon en 1941, signifiait son abattement: «Il n'est pas douteux que la France aurait pu faire à temps sa propre révolution de jeunesse. Le fourmillement des manifestes, d'idées, de plans, de petits journaux et de jeunes revues qui suivit le 6 février 1934 en témoigne amplement. Les mêmes tendances anticapitalistes et antiparlementaires s'exprimaient dans la jeunesse de droite et dans la jeunesse de gauche, qui d'ailleurs multipliaient les contacts». Son maître-livre, Du Pouvoir, imprimé à Genève dès 1945, demeure la désillusion de toute une élite. La mort volontaire de Drieu n'y aura sans doute pas été étrangère.

 

Laurent SCHANG.

 

(1)     directeur du quotidien Le Matin, ministre de l'instruction publique (1924), haut-commissaire au Levant (1925-1926). Epoux de Colette.

(2)     1921.

(3)     1922.

(4)     1927.

(5)     1928.

(6)      qui paraît chez Valois.

(7)     où sont présents Fernand de Brinon, Jean Luchaire, Jules Romains, Paul Morand, Drieu la Rochelle.

(8)     publié en 1934.

 

 

jeudi, 03 décembre 2009

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

zionism_1.jpgArchives de Synergies Européennes - 1998

 

Israël, le Likoud et le rêve sioniste

 

Le terme “sioniste”, en devenant un concept polémique voire une injure politique, ne désigne plus clairement une réalité politique, idéologique et historique. En entendant le terme “sioniste” dans la seule acception polémique qu’a inaugurée le conflit de Palestine, nos contemporains ne parviennent plus à saisir ce qu’a été cette idéologie avant la création de l’Etat d’Israël, dans les mouvements clandestins, et quelles ont été ses évolutions et ses mutations au cours de l’histoire israëlienne. A l’occasion du 50ième anniversaire de l’Etat d’Israël, il nous a semblé bon de conseiller la lecture d’un ouvrage de Colin Shindler, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu  (réf. infra). L’étude de Shindler commence en 1931, l’année où Zeev Vladimir Jabotinsky et ses camarades s’imposent lors du 17ième Congrès sioniste et lancent le “sionisme révisionniste” (qui obtient 21% des votes, contre 29% pour le Mapai modéré de Ben Gourion).  En apprenant ces résultats, Chaim Weizmann, président de l’OSM (“Organisation Sioniste Mondiale”), est amer et ne mâche pas ses mots: pour lui, le “révisionnisme” est une gesticulation haineuse, de type hitlérien. Le clivage entre la gauche et la droite sionistes s’approfondit: le Mapai travailliste (fusion de l’Achdut Ha’avoda et de Hapoel Hatzair) s’oppose à la droite dont le noyau dur est le Betar de Jabotinsky, qui rejette le socialisme, “idéologie faible qui induit l’homme à ne plus déployer d’efforts, à cesser de combattre, de chercher le meilleur”. Et il ajoute: «[Dans le socialisme] la position de chacun serait régulée automatiquement, rien ne pourrait plus être changé, on cesserait de rêver, l’esprit ne se projetterait plus en avant et toutes les impulsions constructives de l’individu disparaîtraient». De même, Jabotinsky rejette injustement l’humanisme “dialogique” de Martin Buber, qu’il a verbalement agressé à plusieurs reprises: “ce provincial typique dans ses allures, un soi-disant penseur de troisième zone, qui énonce neuf dixièmes de phrases tordues pour une seule véhiculant une idée, qui n’est pas la sienne et n’a pas de valeur”. Jabotinsky reproche à Buber de “rêver” et de ne suggérer à la jeunesse juive que le rêve, sans concrétude aucune. Accusé de fascisme par les socialistes, Jabotinsky, toutefois, n’adhère pas à la formule italienne du fascisme et n’accepte pas, a fortiori, l’antisémitisme national-socialiste. Seuls quelques groupes, tel le Brit Ha’Biryonim, ont cultivé une certaine admiration pour Mussolini et même Hitler, tout en admirant les sicarii du Ier siècle de notre ère, qui assassinaient les collaborateurs juifs de Rome.

 

Le sionisme israëlien futur, dont celui du Likoud, sera un dérivé de ce “sionisme révisionniste” explique Shindler. Première étape dans l’évolution du “révisionnisme” sioniste: celle de la constitution de la “New Zionist Organization” (fondée en 1935) qui donne ensuite naissance à deux groupes armés, qui adopteront des politiques quelque peu différentes: l’Irgoun et le Groupe Stern. La différence entre les deux groupes de la “nouvelle organisation sioniste” repose surtout la façon de combattre la présence britannique en Palestine. Faut-il chasser les Anglais par la force ou composer avec eux? L’Irgoun s’était fait l’avocat d’une révolte immédiate contre les Britanniques en Palestine sous l’impulsion de Begin, apôtre de la désobéissance civile sur le modèle gandhiste. Après l’épisode de la “Nuit de cristal” en novembre 1938 et quand éclate la seconde guerre mondiale, Jabotinsky place sa confiance dans la diplomatie britannique et dans la personnalité de Churchill. Cette nouvelle option pro-britannique provoque d’âpres débats au sein de l’Irgoun. David Raziel, commandant militaire de l’Irgoun, opte également pour l’alliance avec Londres contre l’Axe et veut attendre la fin de la seconde guerre mondiale et l’élimination du national-socialisme en Europe, tandis que le Groupe Stern (plus tard le “Lehi”) veut démarrer la révolte juive avant la fin de la seconde guerre mondiale. Il avait fait des propositions à Mussolini à la fin des années 30: selon ce plan, les sionistes devaient s’allier avec l’Italie pour chasser les Anglais de Palestine, former un Etat hébreu de facture corporatiste et satellite de l’Axe et placer les lieux saints de Jérusalem sous la protection du Vatican. Cette proposition n’eut pas de lendemains, de même que l’offre faite à Hitler de recruter 40.000 soldats juifs d’Europe orientale pour chasser les Britanniques de Palestine. Hitler a préféré jouer la carte arabe. Néanmoins, Stern sabote le recrutement de soldats juifs de Palestine pour l’armée britannique. La police britannique abat Stern le 12 février 1942, éliminant le plus radical des sionistes anti-britanniques, ce qui laisse le champ libre à la politique pro-alliée de Jabotinsky et Raziel (qui meurt à la suite d’un raid aérien). Ya’akov Meridor prend sa succession à la tête de l’Irgoun et opte également pour la carte alliée et l’“armistice” avec les Britanniques.

 

Avraham Stern était un homme qui ne faisait pas confiance en Londres et s’inspirait de plusieurs sources: surtout l’IRA irlandaise, mais aussi l’action de Garibaldi en Italie, les sociaux-révolutionnaires russes et, sur le plan de la tradition juive, les animateurs de la révolte contre Rome. Stern s’est successivement adressé à Pilsudski en Pologne, à Mussolini et à Hitler pour demander leur appui contre les Britanniques, sous prétexte que ceux-ci sont les ennemis n°1 du rêve sioniste et que “les ennemis de nos ennemis sont nos amis”. Dès 1944, Begin, sûr de la défaite de l’Axe, donne l’ordre de commencer “la Révolte” contre l’administration britannique et de mettre un terme à l’“armistice”. Après 1945, les successeurs de Stern, c’est-à-dire le triumvirat Eldad, Yellin-Mor et Yitzhak Shamir, s’inspirent des terroristes russes du XIXième siècle, de Netchaïev et de Narodnaïa Volnia, demeurent anti-occidentaux et anti-britanniques et cherchent l’appui de l’URSS de Staline. Idéologiquement, explique Shindler, en dépit de la lutte commune contre l’administration britannique, l’Irgoun et le Lehi (= Groupe Stern) ne pouvaient pas fusionner: le Lehi était très jaloux de son indépendance et refusait tout contrôle par Begin. La carte soviétique du Lehi renouait avec la tradition de Stern (“les ennemis de nos ennemis sont nos amis”). Le Lehi considérait que Staline était le nouvel adversaire principal de l’Empire britannique, après la double disparition de Mussolini et de Hitler. A ce titre, le Vojd soviétique pouvait être considéré comme un allié du futur Israël. Yellin-Mor joue une carte plus bolchevique que ses compagnons: il garde une ligne anti-impérialiste radicale et appelle les sionistes à se joindre à tous les mouvements arabes anti-britanniques de la région. Begin, qui a été interné en URSS dans le goulag, est réticent. Shamir, lui, prend pour modèle Michael Collins, chef militaire de l’IRA, au point de prendre, en souvenir du chef irlandais, le nom de code de “Michael” dans la clandestinité. Il prône une lutte sans compromis contre Londres et entend déployer une propagande pro-sioniste en Amérique, pour créer un mouvement favorable à la création d’Israël comme De Valera et Connolly l’avaient fait pour l’Irlande. La littérature sur l’IRA devient lecture obligatoire pour les militants du Lehi. Shindler rappelle que David Raziel connaissait l’histoire de l’IRA par cœur et qu’Avraham Stern avait traduit en hébreu en 1941 le livre de P. S. O’Hegarty, The Victory of Sinn Fein.

 

Avec l’assassinat de Lord Moyne, ami personnel de Churchill, la Haganah de Ben-Gourion coopère avec les Britanniques et contribue à démanteler partiellement l’Irgoun. Le Lehi, plus clandestin, est relativement épargné. Begin est horrifié au spectacle de l’Haganah tuant des Juifs pour le service d’une puissance tierce. En novembre 1945, seulement, après le refus du nouveau gouvernement travailliste britannique de mener une politique pro-sioniste inconditionnelle, les trois forces (Haganah, Irgoun, Lehi) acceptent un armistice et cessent de se combattre mutuellement. Cette trêve durera jusqu’en août 1946, où Ben Gourion dénoncera les campagnes sanglantes de l’Irgoun (Hôtel King David, Deïr Yassin, etc.).  

 

Après 1948, Begin initie un processus d’alliances et de fusions avec les divers éléments de droite et les factions dissidentes des milieux travaillistes: ainsi son mouvement Herout devient le Gahal en 1965 et le Likoud en 1973. Bien qu’ayant dû accepter l’armistice avec les Britanniques pendant le seconde guerre mondiale, Begin n’a jamais admis leur politique de donner la rive occidentale du Jourdain à l’Emir Abdoullah de Jordanie dans les années 20 ni celle des Nations-Unies de donner ce même territoire aux Palestiniens en 1947. Dans cette revendication, Begin est demeuré fidèle à Jabotinsky qui réclamait pour les Juifs tous les territoires à l’Ouest du Jourdain (la Judée et la Samarie). S’il a redonné le Sinaï à l’Egypte de Sadat, Begin n’a jamais lâché la Cisjordanie, qu’il percevait comme un glacis pour protéger le peuplement juif de Palestine, refuge ultime en cas de nouvelles persécutions en Europe. La conquête du Sud-Liban par Sharon est dans la logique de cette idéologie d’Israël-camp-retranché. 

 

Yitzhak Shamir prend le relais dans le Likoud, bien qu’il soit issu du Groupe Stern anti-britannique. Shamir est un pragmatique, pour qui les pages de la seconde guerre mondiale et de l’opposition des Juifs au mandat britannique sont définitivement tournées, même si la saga du combat sioniste armé et clandestin doit toujours être donnée en exemple aux jeunes générations de “sabras”. Le salut de la droite israëlienne ne réside à ses yeux que dans le Likoud, les autres partis étant trop modestes numériquement. Shamir refuse de rester dans les cercles et petits partis issus du nationalisme anti-britannique, c’est-à-dire du Lehi et de ses satellites. Shamir s’allie donc aux pragmatiques du Likoud, rassemblés autour de Moshe Arens.

 

Avraham Stern a toutefois légué à Shamir l’idée d’un “Très Grand Israël”, du Nil à l’Euphrate. Raison pour laquelle, en dépit de son pragmatisme et de son refus de s’enfermer dans les petits partis dérivés du Lehi, Shamir est resté un adversaire des accords de Camp David. L’idéologie et la pratique de Shamir a donc sans cesse oscillé entre le maximalisme de Stern et le pragmatisme de Ben Gourion, dont il ne partageait pourtant pas la théorie d’une fédération de deux Etats, l’un palestinien, l’autre juif. Shindler rappelle que les actions du Groupe Stern et du Lehi ont toujours été mûrement réfléchies et n’ont jamais été des gestes spectaculaires et irréfléchis. Face à Begin, qui aimait “mélodramatiser” ses interventions et rappelait sans cesse le sort tragique des Juifs d’Europe, Shamir demeurait plus austère dans ses propos mais pratiquait dans le dialogue avec les Palestiniens une “approche immobile”, disant de lui-même qu’il aurait pu faire traîner les négociations pendant dix ans s’il l’avait fallu.

 

Netanyahu est aujourd’hui l’héritier de cette idéologie complexe, qui a pour point commun de faire vivre et survivre coûte que coûte l’Etat d’Israël dans un environnement hostile, mais où des inimitiés anciennes sont bien présentes, focalisées autour des concepts de “Petit Israël” (avec la Cisjordanie) ou de “Très Grand Israël” (du Nil à l’Euphrate).

 

L’ouvrage de Shindler est important, pour connaître tous les méandres de l’histoire du sionisme et d’Israël, pour prendre acte de la complexité de la question palestinienne.

 

Benoît DUCARME.

 

Colin SHINDLER, Israel, Likud and the Zionist Dream. Power, Politics and Ideology from Begin to Netanyahu, I. B. Tauris, London/New York, 1995, 324 p., $39.50, ISBN 0-85043-969-9.